NARRATIVA, Friuli Venezia Giulia. Una famiglia apparentemente normale (6)

FRIULI ROSSO SANGUE: LE INCHIESTE DEL VICEQUESTORE AGGIUNTO ANDREA ZORZON

XVII

«Tu cosa ne pensi, avranno saputo qualcosa? Intendo dire qualcosa di veramente importante e non mi riferisco certo al “nasco” del Borgo…»

Ada temeva che i Carabinieri fossero venuti al corrente dei particolari che fino a quel momento erano rimasti segreti.

Quel capitano che li aveva interrogati a Pordenone le aveva fatto una strana impressione: al momento di uscire dalla caserma del Reparto Operativo nella sua mimica aveva colto un ammiccamento, come se avesse voluto lanciarle un segnale di complicità, inducendola a ritenere che avesse capito qualcosa. Si trattava soltanto di un’impressione, tuttavia era bastata per inquietarla.

L’anziana donna aveva incontrato di nuovo suo fratello il mattino seguente nella propria abitazione, con lui avrebbe ripercorso integralmente tutti gli aspetti passati delle loro esistenze.

Avrebbero verificato tutto per filo e per segno allo scopo di evitare di apparire agli occhi degli inquirenti scarsamente coerenti. Infatti, erano certi che ben presto li avrebbero riconvocati ancora in caserma.

«Allora, da dove cominciamo?»

Al suo incipit Primo venne immediatamente bloccato con un gesto della mano da Ada.

«Aspetta – gli disse la sorella – in questi casi la logica va sostenuta affinando l’istinto e allora la medicina giusta è un goccino di grappa».

La donna condusse il fratello in cucina, dove dalla credenza estrasse una bottiglia.

«Tu lo sai che io non bevo mai, questa ce l’ho perché me l’hanno regalata. È stato il figlio del salumaio, una brava persona. Era mio alunno in quinta quando appena arrivata a Udine cominciai a insegnare alle elementari. Mi è sempre rimasto affezionato, adesso è diventato agronomo e lavora in distilleria».

Versò il liquido in un bicchierino di cristallo azzurrognolo fino a colmarne la misura, quindi alzò il collo allungato della bottiglia e la poggiò sul tavolo. Primo trangugiò tutto in un fiato, dopodiché esalò un respiro premendo sul diaframma, infine riprese a parlare.

«Qui salta fuori tutto – esclamò –, se quello ha trafficato coi materiali prima o poi i Carabinieri tirano fuori qualcosa e arrivano a noi. Morto Nevio noialtri restiamo gli ultimi in vita».

Di loro tre a Spilimbergo non sapeva niente nessuno, poiché il Numero due era morto da un pezzo e poco tempo dopo erano crepati anche B-30 e il Consegnatario. Dunque, oltre a loro due, beninteso, l’ultimo testimone rimasto dei “bei tempi andati” era il Nevio, che però era stato fatto fuori. Tutti morti, incluso il Plevan, l’unico forse a sapere come erano andate davvero le cose.

«Ti ricordi? – rimarcò Ada – Eravamo certi che don Verzotto avesse messo tutto a posto, poi però ci fu quello strano incidente. Fu qualche mese dopo che ci sciolse dalla consegna esortandoci a dimenticare».

Primo ricordava perfettamente, era accaduto nel 1992.

«Fu quando decisero che non ci sarebbe stato più bisogno di noi – aggiunse la donna – allora il Plevan ci congedò. Non pensi anche tu che la sua scomparsa sia avvenuta in circostanze poco chiare? Ora che sono passati così tanti anni da quel fatto ritieni che potrebbero esserci dei collegamenti con l’assassinio di Nevio?»

Primo non lo ritenne possibile, seppure gli interrogativi sulla tragica fine del Plevan erano tanti, fin da quel lontano pomeriggio del 30 maggio 1992.

Don Sebastiano Verzotto amava molto il mese mariano. Quando il mattino di quel giorno si mise al volante della sua vecchia Autobianchi A-112 per recarsi alla Biblioteca del Seminario a Udine aveva da poco compiuto il suo sessantanovesimo anno di età.

Prima di raggiungere il capoluogo friulano decise di passare da Àrzene, voleva conferire col parroco del paese. Superato San Giorgio della Richinvelda, mentre percorreva il rettilineo che precede San Martino al Tagliamento si scontrò con una Peugeot 504.

Lanciata a forte velocità, la pesante berlina francese aveva invaso improvvisamente la sua corsia di marcia e il frontale era stato inevitabile e violentissimo. Tutta la forza dell’impatto si era scaricata sul faro sinistro dell’utilitaria, la zona corrispondente in asse al lato del conducente. Il sacerdote era rimasto incastrato nell’abitacolo e la macchina dopo una serie di testa coda era uscta fuori dalla carreggiata piombando in un campo di granoturco dove poi aveva preso fuoco. Nessun testimone assistette al pauroso incidente e così  il responsabile si poté dare alla fuga facendo perdere le proprie tracce.

A un successivo controllo effettuato dalla polizia l’autovettura risultò rubata alcuni mesi prima a Campagna Lupia, un paesino tra Chioggia e Mestre. Al tempo si ipotizzò che potesse essersi trattato di un delinquente alla guida, magari in stato di ubriachezza, probabilmente preceduto o seguito da un complice a bordo di un altro veicolo, che dopo l’incidente lo aveva prelevato dileguandosi insieme a lui.

Dopo la scomparsa di don Verzotto successe poi un’altra cosa strana: la diocesi di Spilimbergo-Concordia ruppe con la tradizionale continuità col passato, inviando nella sede vacante un sacerdote originario del Polesine, don Prosdocimo Cavallin, che assunse le funzioni di assistente del parroco. Don Prosdocimo era un prete di campagna che aveva studiato al seminario di Pordenone, un sempliciotto totalmente al di fuori delle dimensione nella quale aveva vissuto il suo predecessore.

Chiudersi nel silenzio, questa fu la decisione che presero i Calegaro al termine del loro incontro in casa di lei. Ricordarono un’ultima volta le parole del loro padre spirituale.

«Dovete restare sereni – gli aveva detto don Verzotto pochi mesi prima di morire – non dovere avere preoccupazioni. Lo avete veduto voi stessi: non siete nella lista e, se non ci siete, è per la semplice ragione che noi eravamo “altro” rispetto a loro. Voi rispondevate soltanto a me e questo vi deve bastare. Siate certi che nessuno verrà mai a chiedervi conto del vostro operato. Soltanto dio onnipotente lo farà, ma a tempo debito».

A seguito della sua tragica scomparsa quelle parole avevano però assunto dei contorni inquietanti e qualcuno all’interno della cellula temette di essere il prossimo della lista. Poi, invece, fortunatamente non accadde nulla, proprio come aveva previsto il Plevan. Tutto sembrò finire con la sua violenta morte.

Data la tarda ora sopraggiunta Primo decise di lasciare l’abitazione di Ada.

«Me ne torno a Spilimberc – le disse indossando il paletot – ti darò un colpo di telefono non appena arrivato».

La baciò sulla guancia e lei contraccambiò con una carezza. Avvolta la sciarpa grigia attorno al collo, Primo infilò in testa il cappello di feltro color verde petrolio. Un ultimo cenno di saluto alla sorella dal pianerottolo e prese a scendere la rampa di scale. Uscì in strada che era il preludio del tramonto.

Udine era intensamente illuminata dai raggi del sole, una luce forte che in quella giornata asciutta faceva brillare di arancio le cime degli alberi colorando al contempo di violetto le montagne. Dal primo pomeriggio non pioveva più e un forte vento proveniente da Est aveva spazzato via tutta l’umidità stagnante nell’aria. Il vecchio raggiunse a passi veloci l’autostazione.

La corriera per Spilimbergo non era ancora al marciapiedi sedici, questo malgrado il serpentone luminoso che scorreva sul tabellone elettronico delle informazioni ne annunciasse già la partenza. Quando l’autobus arrivò, riuscì a trovare un posto a sedere. In molti vanno a Udine al sabato. I ragazzi di fuori si danno appuntamento in città, mentre la gente va a fare le compere in centro e qualche militare fuori servizio se ne va a zonzo senza meta rimpinzandosi di tutto ciò che trova nelle pizzerie che incontra sul suo cammino. Poi ci sono i pendolari, quelli che lavorano nei giorni prefestivi. Una variegata umanità che alla fine del pomeriggio si ritrova tutta lì, ad aspettare le ultime corse dell’azienda pubblica dei trasporti per fare ritorno a casa in provincia. Essi, non appena il conducente apre le porte dell’autobus, entrano e si sprofondano nelle poltroncine, depositando borse e buste di plastica nel vano portabagagli.

D’inverno, il tepore dell’impianto di riscaldamento e la musica soffusa dell’autoradio si fondono, generando un’atmosfera soporifera che sortisce quasi subito i suoi effetti. Una volta cessati gli stop and go imposti dai semafori rossi nel circuito urbano udinese, raggiunta la campagna friulana, dove si attenuano i bagliori delle luci esterne, i passeggeri crollano finalmente in un ovattato dormiveglia.

Primo si sedette su di una poltroncina nella parte posteriore del corridoio, accanto a un giovanotto che armeggiava senza sosta con un gioco elettronico aveva in mano.

La corriera rimase in sosta col motore acceso alcune decine di secondi, giusto il tempo di consentire al vecchio un’ultima sbirciata fuori dal finestrino appannato.

Sull’asfalto bagnato e un poco sudicio un piccione stava beccando alcune briciole tra le minuscole pozze d’acqua stagnante. La bestiola aveva una zampa recisa di netto a metà ed era costretta ad appoggiarsi con grande sforzo su quella che le restava integra.

Era un uccello avanti con l’età, lo si capiva dalla lentezza delle sue reazioni mentre si trovava impegnato in una serie di faticosi movimenti per accovacciarsi e riuscire a beccare in terra.

Chissà – pensò Primo – se quel grave handicap era la conseguenza di una malformazione genetica oppure l’animale era incappato in una trappola, ovvero vittima del sadismo dell’uomo.

Quella creatura sfortunata mise a dura prova la sua sensibilità. Lo fece riflettere sulla propria condizione esistenziale. Anche Primo, infatti, come quel piccione storpio era ormai giunto all’autunno della propria vita, un tempo nel quale ci si rinchiude nei ricordi.

Come quello di suo padre Arrigo, il reduce dalla Russia. Il mite ed efficiente partigiano della “Osoppo”, intimo amico di don Verzotto, personaggio dal quale era iniziata tutta la storia.

  

 XVIII

Non è chiaro se Arrigo Calegaro avesse conosciuto Sebastiano Verzotto prima dell’armistizio dell’otto settembre 1943, di certo, però, entrambi avevano militato nella Resistenza.

Arrigo, col nome di battaglia “orso”, era stato nella Brigata Ippolito Nievo-B, una formazione attiva nella pianura alla destra del fiume Tagliamento che riuniva sotto un comando unificato sia gli osovani che i garibaldini. Il sacerdote di Tarcento, invece, a quell’epoca ventenne e ancora in seminario a Udine, era entrato a far parte della Divisione Osoppo-Friuli alcuni mesi prima del grande rastrellamento tedesco dell’autunno 1944, che aveva colpito duramente la Carnia e le Prealpi dell’Arzino. In ogni caso, i due avevano stabilito un contatto già nel periodo della Zona libera della Carnia e del Friuli, seguito al ripiegamento nazifascista in pianura sotto la pressione dell’iniziativa partigiana.

Don  Verzotto non godeva di eccessiva libertà di movimento, i soldati tedeschi e militi della Repubblica sociale italiana controllavano in modo capillare il territorio friulano, quindi anche per un prete gli spostamenti erano difficili. Al religioso furono affidati compiti particolarmente impegnativi. In funzione di corriere divisionale divenne l’elemento di collegamento col comando della divisione partigiana a Pielungo. Per questo doveva recarsi frequentemente oltre il Tagliamento, spingendosi fino a quell’isolata località fra le montagne. Il Plevan, che in seminario aveva imparato a parlare in lingua inglese, ricevette inoltre l’incarico di seguire gli aviolanci alleati di armi e materiali destinati alle formazioni della Resistenza.

A questo specifico scopo venne posto in contatto con la missione segreta britannica guidata dal maggiore Nicholson, un lavoro difficile che lo espose a seri pericoli. Ogni volta raggiungeva le impervie valli del Meduna e dell’Arzino attraversando le zone fortemente presidiate dal nemico. Superato il ponte di Dignano, prima di inoltrarsi oltre la pedemontana sostava a Spilimbergo, dove riceveva il sostegno del posto tappa che rispondeva direttamente al comando di Udine. Era lì che si univa ad Arrigo Calegaro, l’alpino della Julia reduce dalla Russia, che sforzando la sua gamba offesa lentamente lo guidava al punto d’incontro con gli inglesi. Ai posti di blocco un prete e uno storpio insospettivano meno i tedeschi.

Le zone di lancio erano solitamente due: Pràdis e Casera Chiampis. Un ampio spazio in mezzo ai monti oltre il Passo dell’Aquila, a nord di Tramonti, dove più di una volta incontrarono la missione mista anglo-americana. Scortati dai garibaldini, dapprima raggiungevano le pendici del Monte Cuar, poi insieme agli ufficiali alleati si spostavano verso il canal di Cuna, dove via radio dirigevano gli aviolanci dei materiali destinati alle formazioni combattenti comuniste dell’area. Fu in quelle occasioni che il Plevan stabilì i primi contatti con l’Office of Strategic Services americano. Nell’ultimo scorcio del Secondo conflitto mondiale Washington già pensava al futuro confronto con Stalin che sarebbe seguito alla resa tedesca in Europa.

Malgrado il suo avventuroso passato, Arrigo in famiglia non parlava mai volentieri della guerra. Dopo l’insurrezione dell’aprile 1945 rimase in contatto con don Verzotto, che nel frattempo era stato trasferito a Cividale. Il sacerdote esercitava un irresistibile ascendente sui ragazzi anche in ragione della sua fama di partigiano. Il suo eloquio, semplice ma profondo, captava l’attenzione di tutti. Quando a officiare era lui, la gente si recava numerosa a messa per ascoltare le sue omelie, seguendolo poi in parrocchia alla catechesi per adulti.

In realtà don Verzotto era molto più di un forbito viceparroco intensamente dedito alle attività pastorali, ora che il nemico dell’Occidente era divenuto l’Unione Sovietica, in una zona strategicamente delicata come il Friuli le sue esperienze, unite alla conoscenza di procedure comuni oltre alle informazioni di cui era in possesso, tornarono utili ai servizi segreti d’oltre Atlantico.

Così, nell’immediato dopoguerra un elemento affidabile dello spessore di Sebastiano Verzotto divenne a tutti gli effetti un “operativo” dell’Organizzazione Osoppo, la struttura paramilitare anticomunista clandestina articolata su gruppi di battaglioni che aveva esteso il suo controllo su buona parte del territorio friulano.

In ragione della funzione pastorale esercitata, il prete osovano non destava eccessivi sospetti quando si recava nelle caserme e nelle stazioni dei Carabinieri del Friuli orientale. Venne assegnato alla sezione informazioni dell’organizzazione, il centro nevralgico dell’estesa rete operativa che inviava i suoi rapporti al III Corpo d’Armata dell’Esercito italiano. Il prete, che teneva sotto osservazione le persone di sentimenti filo jugoslavi e i simpatizzanti comunisti, per anni fece continuamente la spola con Udine, dove avevano sede il seminario e l’arcivescovado. Quando nel 1954 i tempi mutarono, cessata “l’emergenza Tito”, il baricentro delle sue attività venne spostato nella zona a cavallo del guado sul Tagliamento. Gli furono affidate delle competenze all’interno del triangolo Pinzano-Spilimbergo-San Daniele, dove fece perno sui Battaglioni XIV e XV del Corpo Volontari della Libertà, il primo operativo nello spilimberghese, l’altro a Dignano e a San Odorico. Fu allora che ristabilì i contatti con “Orso”.

Nel 1961, quando ufficialmente la Osoppo era stata sciolta da anni, Primo Calegaro, fece il militare come sottotenente di complemento al Reggimento Alpini di Cividale. Il figlio di Arrigo non poteva certo immaginare che nelle armerie delle compagnie di sicurezza della sua caserma fossero state segretamente custodite le armi dell’organizzazione paramilitare. Sempre nello stesso luogo, a distanza di tanti anni, incontrò nuovamente don Verzotto. Accadde negli ultimi mesi di ferma e la cosa gli parve del tutto casuale.

La corriera per Spilimbergo andava veloce come i ricordi di Primo, che riaffioravano nella sua mente nitidi fin nei minimi particolari. I pensieri, però, tornavano sempre allo stesso punto: al fratello morto.

Una lacrima gli bagnò le guance rugose e il ragazzo seduto al suo fianco se ne accorse. Erano quasi giunti a destinazione, stavano attraversando il ponte sul fiume e, nell’oscurità della sera, dall’interno dell’autobus il letto del Tagliamento si distingueva a malapena. Il ragazzo si alzò in piedi per prelevare il suo zainetto dalla mensola portabagagli, ma vedendo il suo anziano compagno di viaggio piangere si premurò di confortarlo.

«Signore, si sente bene? Guardi, io scendo qua a Spilimbergo, ma se ha bisogno di aiuto lo dico all’autista».

Primo voltò leggermente il capo. Riuscì a leggere le ultime parole pronunciate dal ragazzo soltanto dal labiale, ma comprese egualmente che il giovanotto si stava interessando a lui. Venne colpito dalla sua sensibilità. Lo carezzò paternamente sulla guancia fissandolo intensamente coi suoi occhi tristi, poi estrasse il fazzoletto dalla tasca dei pantaloni e si soffiò il naso. Provò a rispondergli cercando di nascondere l’emozione.

«Non è niente, non si preoccupi. Comunque grazie, lei è veramente gentile, grazie davvero».

Sceso dalla corriera venne riportato immediatamente alla realtà dal freddo gelido della sera. Si era fatto buio, ma non era ancora tardi e i negozi sarebbero rimasti aperti almeno ancora per mezzora.

Malgrado la stanchezza non ebbe difficoltà a percorrere speditamente la strada che lo separava da Corso Roma. La cittadina era affollata di gente venuta da fuori, il sabato è giorno di mercato a Spilimbergo e per le nove era prevista una festa in piazza, un’orchestrina giunta lì da chissà dove avrebbe suonato delle musiche andine. Decise di andare a bere un bicchiere di vino all’osteria. Mentre camminava venne involontariamente urtato da una ragazza che non esitò a scusarsi con lui. La riconobbe nella commessa del negozio di scarpe di Piazza Borgolucido, la conosceva soltanto di vista per averla incontrata qualche volta senza però mai scambiarci una parola. Riprese quindi il suo cammino sul selciato bianco del corso illuminato dai lampioni.

Luisella aveva finito di lavorare in negozio e stava frettolosamente raggiungendo gli amici della comitiva al bar di Via Cavour. Avrebbe voluto rivedere Antonella, ma non era riuscita a parlarle al telefono e a fissare con lei un appuntamento. Di solito, al sabato, la soldatessa quando non era di servizio usciva dalla caserma al mattino e se ne andava a passeggio per Udine o Pordenone. Quel giorno Luisella aveva ripetutamente provato a chiamarla, ma aveva sempre trovato il suo telefonino staccato. Voleva discutere con lei a mente fredda di ciò che era successo, dato che dal giorno del fatto non si erano più riviste. Durante la settimana appena trascorsa la caporalessa si era negata all’amante e aveva risposto solo una volta alle insistenti telefonate di lei. Era forse il segnale di un distacco?

Antonella la respingeva affinché ella comprendesse che sarebbe dovuta uscire definitivamente dalla sua vita? Cercava di dare un taglio netto a quel rapporto ambiguo dopo una breve ma intensa parentesi di trasgressività?

Chissà, magari non aveva più intenzione di concedere spazi a eccessi del genere, soprattutto alla luce di quello che era successo quella maledetta notte.

Originaria della provincia di Salerno, Antonella aveva ventisei anni ed era in forza come scritturale al comando del suo reggimento a Tauriano. Con la commessa aveva fatto l’amore sui magredi non lontani dalla base militare dove prestava servizio, incontri fugaci strappati al tempo, resi possibili da folli corse in auto e scuse al limite della credibilità inventate per coprire i ritardi al rientro in caserma. Quando si incontravano, il più delle volte usciva dalla base delle truppe corazzate vestendo l’uniforme. Luisella l’attendeva in macchina col motore acceso per schizzare via a fare l’amore nei boschetti selvatici cresciuti sul greto del torrente. Spogliarla le dava un piacere immenso, quando la vedeva vestita così impazziva dal desiderio. Iniziava sempre carezzandole i lunghi capelli castani che, non più raccolti sotto il basco nero, si scioglievano sulle spalline della drop color cachi.

Il sesso è un bisogno insopprimibile dell’essere umano, tuttavia la soldatessa era spinta all’amore saffico non soltanto dai sensi, bensì anche da un perverso desiderio di trasgredire. Era sopraffatta dal gusto del proibito e, al contrario della sua amante, sul piano dei sentimenti provava un totale vuoto pneumatico. Una mancanza di reciprocità intuita da Luisella, che però si ostinava ad aggrapparsi all’effimera illusione di una possibile futura “vera” relazione con lei.

Attraversato il centro di Spilimbergo raggiunse il bar di Via Cavour. La comitiva di amici aveva deciso di andare a mangiare una pizza a Vidulis, sull’altra sponda del fiume. Faceva freddo e uno di loro esortò gli altri a sbrigarsi. Allora salirono nelle macchine e partirono in direzione del Tagliamento. Erano tutti allegri tranne Luisella. La ragazza se ne stava in silenzio con la testa appoggiata al finestrino a guardare i paesini sulle montagne che in quel momento apparivano come macchie di luce formate da puntini illuminati.

  

XIX

La serata del sabato trascorreva lentamente. I locali erano pieni di avventori, mentre fuori le strade si erano andate gradualmente spopolando. Come era solito fare al crepuscolo, Primo consumò una cena frugale, attendendo che si facessero le nove per coricarsi. Era sempre stato un abitudinario metodico, tuttavia quella sera durante la cena non volle ascoltare il notiziario alla radio. Non ce la fece, era afflitto dal dolore. Prima di stendersi sul letto all’ora consueta, telefonò alla sorella per rassicurarla sul suo stato, ma ella ascoltatane la voce comprese che aveva bevuto un bicchiere di troppo.

«Primo ti prego, bada a te stesso – gli disse cercando di consolarlo – ormai per Nevio non possiamo fare più niente, almeno cerchiamo di pensare a noi».

Messa giù la cornetta una volta terminata la conversazione, il vecchio indossò un pigiama di flanella e si sdraiò sul letto coprendosi con un plaid di lana. Dalla finestra della sua camera scorse la solita porzione di cielo ritagliata tra i muri bianchi degli edifici frontisti, sulla quale si stagliava la canna fumi del ristorante all’angolo. Passarono i minuti ma non riuscì a prendere sonno e nel fragile dormiveglia riemersero di nuovo i medesimi ricordi che lo avevano accompagnato durante il viaggio in corriera da Udine. Le immagini sbiadite di Nevio, del babbo e della mamma, poi ancora del Plevan. Il sacerdote scomparso venti anni prima stava diventando una vera ossessione, ne ripercorse quindi a mente la storia.

Dopo il periodo trascorso a Cividale, don Sebastiano Verzotto era giunto a Spilimbergo con lo scopo ufficiale di assistere l’anziano parroco che a fatica si faceva carico del tempio di Santa Maria Maggiore, ma in realtà il “Plevan” era un’agente d’influenza dei servizi segreti che agiva sotto la copertura dell’abito talare.

La doppia veste del sacerdote venne avvalorata anche dalle intense attività propagandistiche che egli svolse a fino al momento in cui iniziò la selezione dei suoi discepoli più affidabili, i cosiddetti “prediletti”. Anche Primo e Ada ne fecero parte. In gioventù venivano spesso convocati da Generoso Biasiutti, un altro ex appartenente ai Comitati civici di Gedda. Gli incontri avvenivano nella massima discrezione. Biasiutti faceva accomodare i ragazzi nella stanzetta adiacente alla sala di proiezione del cinema parrocchiale in Piazza del Duomo, nella quale don Verzotto poi teneva appassionate lezioni di politica e di morale.

Primo non dimenticò mai quel soleggiato pomeriggio di maggio che preluse al loro agganciamento da parte dell’organizzazione. Pensava che nell’incontro in parrocchia si sarebbe parlato del pericolo comunista e, in effetti, il Plevan esordì con un esercizio di retorica sulla libertà e la lotta partigiana che sfociò poi in una prosa piuttosto affaticata e stantia. Quella volta avrebbe trattato anche altri temi e il sermone sarebbe durato più del solito: il sacerdote affrontò particolari scottanti come il “piano K” e l’Arma dei Carabinieri.

Il suo eloquio colpì i cuori dei “prediletti”, che lo ascoltarono come fossero degli adolescenti rapiti. In essi rafforzò lo spirito di partecipazione e la spinta volontaristica. Concluse il suo discorso accennando ad alcuni episodi della guerriglia partigiana, legando l’epopea della Resistenza alla rappresentazione della lotta per la libertà e la democrazia che in quel momento aveva luogo in Italia.

Don Verzotto prese parte alla guerra di propaganda dedicandosi alla controinformazione e alle operazioni psicologiche. Mantenne saldi legami con la sua vecchia formazione di appartenenza, la “Osoppo”, che nel frattempo con l’approvazione e il sostegno degli americani aveva mutato natura trasformandosi in una struttura paramilitare clandestina. Meno prediche e più intelligence: il prete di Tarcento era tornato a raccogliere informazioni sui militanti e i simpatizzanti comunisti, però stavolta con nuove e gratificanti prospettive, dato che già nel 1947 la curia lo aveva inviato negli Stati Uniti.

Era stato il suo primo viaggio all’estero, effettuato ufficialmente per motivi di studio. In America ci era rimasto tre mesi. In seguito, con il passare degli anni e la stabilizzazione della situazione sul confine jugoslavo, il centro delle sue attività venne spostato nella destra Tagliamento, in particolare nello Spilimberghese, un territorio che lui conosceva alla perfezione per avervi fatto il partigiano.

Nell’ottobre del 1957, Robert Porter, al tempo capo della stazione CIA di Roma, lo accompagnò personalmente negli Stati Uniti insieme a sei ufficiali del servizio segreto militare italiano per farli partecipare a un corso sulle reti Stay-Behind. Don Verzotto raggiunse il territorio americano in abiti borghesi dopo aver fatto scalo in Israele con la scusa di un pellegrinaggio in Terra santa. Separato quasi subito dagli altri, venne addestrato alle tecniche di guerra non ortodossa e alle operazioni psicologiche.

Il suo secondo viaggio oltreoceano rappresentò per il Plevan un fondamentale punto di svolta. Era stato selezionato per lo svolgimento di compiti molto particolari: gli americani stavano costituendo una nuova struttura paramilitare clandestina, il Dispositivo Friûl, al comando del quale sarebbe stato posto proprio lui. La cellula avrebbe mantenuto i contatti con il livello superiore tramite un agente di collegamento e, in caso di eventuale cattura dei componenti, lo strettissimo regime di sicurezza imposto al suo interno avrebbe consentito di far ricadere tutte le responsabilità esclusivamente sul suo vertice.

Per il reclutamento, il Plevan attinse al bacino delle persone di sua fiducia, segnalate successivamente agli americani che ne avrebbero vagliato i profili.

I primi a essere attenzionati furono i potenziali componenti della struttura operativa principale, il cosiddetto nucleo centrale, mentre soltanto in seguito venne formata la sottostruttura di supporto mediante il reclutamento degli ausiliari, denominati in codice gregari. Tutti gli “operativi” ricevettero un criptonimo quale identificativo: oltre al “Plevan”, c’erano il Numero 2, il Consegnatario e B-30.

Il Numero 2, cioè l’uomo di maggiore fiducia del Plevan, era Walter Danielis, un sacrista ufficialmente assunto con regolare contratto di lavoro dal rettore del duomo per fare le pulizie all’interno del tempio; di profondi sentimenti cristiani, da militare era stato artificiere presso il IV Corpo d’Armata Alto Adige, dove si era occupato della bonifica degli ordigni esplosivi negli anni del terrorismo sudtirolese.

Ulrico Magris, il Consegnatario, derivava invece il proprio criptonimo dalla sua attività di gestione della cava sul Meduna, un impianto estrattivo dal quale si ricavavano materiali inerti destinati all’impiego nelle costruzioni; fu lui, su ordine del Plevan, ad assumere fittiziamente alle sue dipendenze il giovane Nevio Calegaro, corrispondendogli una retribuzione pagata con i fondi di Langley.

Infine c’era Generoso Biasiutti, o B30, il volontario dei Comitati civici di Gedda che aveva svolto il servizio di leva con incarico “30B” dell’ufficio “I” del Reggimento Alpini di Cividale, il medesimo luogo dove nel 1961 avrebbe fatto il militare anche Primo Calegaro, assegnato al comando di un plotone di fanteria alpina in quella stessa caserma dove sarebbe stato cooptato nell’organizzazione da don Verzotto. Esisteva una struttura patriottica segreta che faceva affidamento su elementi di provata fede e lui era un ufficiale dell’Esercito prossimo al congedo. Insomma: il Dispositivo Friûl aveva bisogno di lui.

«Vedi – lo rassicurò il Plevan in quell’occasione – non sarà neppure necessario mantenere dei contatti col tuo reggimento di appartenenza. Qualora per te dovesse verificarsi il bisogno di un richiamo potremo sempre fartelo fare. Lo giustificheremo con l’avanzamento e ti faremo prendere il grado superiore, oppure, se questo non sarà possibile, lo motiveremo con delle sopravvenute esigenze addestrative. Stai tranquillo, non sarà certo il colonnello che comanda il distretto militare di Udine che potrà metterci i bastoni fra le ruote».

Illustrati sommariamente i compiti della struttura occulta, don Verzotto giunse alla conclusione della sua proposta e, prima di congedarsi definitivamente dal suo discepolo, si raccomandò con lui affinché mantenesse l’assoluta segretezza della cosa con tutti.

Dopo che il Plevan si fu accomiatato, Primo rimase ancora seduto per alcuni minuti nella saletta parlatorio della caserma, sprofondato tra le molle dell’imbottitura di una vecchia poltrona e confuso dalla proposta del sacerdote amico di suo padre. Il suo cervello incominciò vorticosamente a mettere insieme tutti gli elementi disponibili giungendo a formulare i più disparati interrogativi: perché don Verzotto si era rivolto proprio a lui per quell’incarico così speciale? Chi poteva averlo segnalato a quell’oscura organizzazione? Era stata una sua iniziativa personale oppure c’entrava qualcosa anche suo padre Arrigo?

Il fatto che l’Ors potesse essere stato l’artefice di quell’incontro non era una ipotesi peregrina, poiché durante la guerra era prassi normale tra i partigiani segnalare alla propria brigata coloro i quali si sarebbero potuti unire alla Resistenza e, dunque, poteva essere andata così anche stavolta.

Un aspetto in particolare però non lo convinceva del tutto: se si trattava veramente di una struttura segreta per quale ragione don Verzotto aveva fatto cenno ai richiami dei congedati e al distretto militare di Udine?

Che c’entrava con quella storia l’Esercito italiano se poi lui non avrebbe potuto neanche riferire dell’incontro al suo superiore nella scala gerarchica militare? Stavano forse ricostituendo la “Osoppo” sotto altre forme svincolandola dai controlli istituzionali?

Venne assillato dal dubbio se seguire o meno in questa strana avventura il suo padre spirituale. In passato si era sempre fidato ciecamente di lui e aveva ritenuto di conoscerlo bene, ma ora si rendeva conto di non saperne davvero nulla.

(6 – continua)

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