VATICANO, politica. Una riflessione su nazionalismo e sovranismo attraverso la lente della Dottrina sociale

Le contraddizioni e le difficoltà per la Chiesa cattolica nell’approcciarsi alla scomoda tematica emergono dal XI Rapporto dell’Osservatorio cardinale Van Thuan sulla Dottrina sociale della Chiesa, quest’anno dedicato a “Popoli, Nazioni, Patrie: tra natura e artificio politico”

Tutto sta nel comprendere la differenza tra Stato e nazione, perché la Chiesa ha rapporti con gli Stati, ma è allo stesso tempo vicina alle nazioni, ai popoli, va loro incontro nella loro cultura e vuole che questa non sia eliminata o messa a rischio. Questo emerge dal XI Rapporto dell’Osservatorio cardinale Van Thuan per la Dottrina sociale della Chiesa, che quest’anno ha concentrato la propria analisi sulle differenze tra nazioni e Stati, mettendo in luce la contraddizione dai tratti drammatici che è oggi espressione di quelle ideologie che guardano allo Stato prima che ai popoli e alle strutture prima che alle persone.

Il Rapporto, dedicato a “Popoli, Nazioni, Patrie: tra natura e artificio politico” è forse quello che più si caratterizza per la natura politica finora elaborato.

In esso vengono tratteggiate anche alcune critiche nei confronti delle posizioni assunte dalla Santa Sede, in particolare le più aderenti al globalismo, senza però mancare di notare che il passaggio verso il mondo globale si è reso necessario nel quadro di un mondo che diveniva sempre più multipolare.

Inoltre, contiene anche undici schede relative a Paesi nei quali il problema del nazionalismo è particolarmente sentito.

Si tratta di un tema fondamentale al giorno d’oggi, in cui tanto si parla di sovranismo, che va anche contestualizzato sul piano storico, poiché nel centesesimo anniversario del Trattato di Trianon (che mutò i confini degli Stati mettendo da parte per sempre il concetto di nazione) ci si trova ancora di fronte al problema creato dal vuoto generato dalla dissoluzione degli imperi.

Nel 2017 il Rapporto aveva affrontato il tema delle migrazioni, che per altro ritorna spesso nella saggistica cattolica, in cui non si manca di notare come l’attacco alla nazione viene fatto anche attraverso le politiche migratorie.

Nel 2018 si delineò invece la crisi dell’Europa, e anche questo risulta essere una tematica presente nel Rapporto di quest’anno, l’Europa è infatti una di quelle identità sovranazionali che appaiono edificate proprio a danno dei popoli e delle nazioni sue costituenti.

Nel 2019 si analizzò l’islam politico e la cosiddetta sostituzione delle identità,  con le sue conseguenze di fronte a nuove religioni dall’impegno marcatamente politico.

L’arcivescovo Giampaolo Crepaldi – che da poco ha lasciato la carica di presidente dell’Osservatorio Van Thuan rimanendo però all’interno dell’organizzazione – nota nella sua introduzione che il passaggio verso un maggiore interesse internazionale si può notare dalle differenze tra due encicliche sociali, la Centesimus Annus di Giovanni Paolo II del 1991 e la Caritas in Veritate di Benedetto XVI nel 2009: la prima era più interessata alla dimensione della nazione che alla globalità, la seconda al contrario, e non solo perché veniva da una crisi finanziaria, ma anche perché «individua – queste le parole del prelato – il principale pericolo del processo di globalizzazione, che viene indicato nello spirito di tecnicità, e perché azzarda alcune proposte circa la gestione mondiale del potere politico».

Crepaldi – probabilmente rivolgendo le proprie timorate attenzioni agli inquietanti sviluppi politici in atto in non poche nazioni tradizionalmente cristiane d’Europa –  intende sottolineare che la fede cattolica vuole fare «di tutte le nazioni un popolo unito nella grazia, una nazione nuova, ma questo avviene non negando le nazioni naturalmente intese, bensì assumendole ed elevandole».

«Una visione che si contrappone a quella universalista – aggiunge l’arcivescovo –, anche perché una fede cristiana universalistica, intesa sull’esempio dell’universalismo illuminista o massonico (…figuriamoci) perderebbe i contatti con l’insieme dei legami naturali e storici che si consolidano nelle nazioni e prenderebbe congedo dalla Dottrina sociale della Chiesa, la quale ha senso solo se il cristianesimo si fa corpo nella storia».

In qualche modo, gli Stati mettono da parte le nazioni, forzano i popoli all’interno di strutture ma allo stesso tempo obbligano a perdere una identità. La creazione degli Stati, infatti, è qualcosa di diverso dalla nazione ed è possibile chiamare «patria» la propria nazione anche se questa non è uno Stato.

«In fondo – prosegue il religioso cristiano -, nazione e patria erano concetti negati nei paesi sotto la dominazione sovietica, ma che hanno perso presa anche nei paesi occidentali amalgamati nell’Unione europea o in altre forme sovrastatali».

«Il rapporto tra la nazione e Dio – scrive ancora Crepaldi – avviene tramite la cultura e implica, da un lato che si dia una cultura della nazione, un suo collante identificativo immateriale, e dall’altro che la fede in Dio si faccia cultura. Chi nega l’uno o l’altro corno del problema non riesce a spiegare il rapporto tra religione e nazione».

Ed ecco, quindi, fornita la spiegazione, poiché nella storia dei nostri giorni non solo le nazioni vengono aggredite da altre nazioni, o nuovamente colonizzate con strumenti sofisticati di natura finanziaria, ma vengono negate nella loro natura e nei loro doveri e nei loro diritti da spinte sovranazionali, mondialiste e globalizzanti che svuotano le persone delle loro radici e creano una massa mondiale di disadattati riadattabili dal nuovo potere.

Nel suo saggio “Popoli, Nazioni e Patrie”, Stefano Fontana pone in luce un altro aspetto del problema, quello che la nascita dello stato moderno ha indotto l’identificazione tra nazione e stato e questo ha generato il nazionalismo e la guerra tra gli stati nazione.

Questo accade perché (parole di Fontana) «lo Stato assoluto e burocratico finisce per dimenticare il diritto naturale e considerare solo il diritto positivo secondo la prospettiva del positivismo giuridico. In questo modo lo Stato finisce col pretendere di aver sempre ragione, anche quando trascura o opprime le realtà naturali che lo precedono. In passato, invece, quando ancora non si era affermata la forma statale, “la molteplicità creativa e la dimensione universale si tenevano insieme senza opprimersi, tanto che mancava lo Stato, ma non mancava la comunità politica, né quello si identificava con questo».

«Ormai – prosegue  – gli Stati sono sedimentati, le rivendicazioni nazionali li possono mettere a rischio, ma si devono anche studiare bene i fatti, perché “non tutte le rivendicazioni nazionali meritano di essere adeguatamente sostenute».

«Di certo – sottolinea il filosofo cristiano veronese oggi alla guida dell’Osservatorio Van Thuan -, ci si trova in una situazione variegata, perché attualmente nel nostro pianeta ci sono nazioni che hanno un proprio Stato, ci sono Stati che hanno al loro interno più nazioni e popoli, ce ne sono altri la cui identità nazionale è più vulnerata dalle migrazioni, ci sono nazioni che stringono tra loro accordi a cavallo di più confini nazionali, ci sono Stati che danno vita a intese economiche e politiche sovranazionali».

Il tutto in un globalismo culturale che disprezza le patrie, o «cerca di catturarle nel proprio sistema di fruizione turistica disincarnata, mentre si diffonde una cultura mondialista standardizzata, con una lingua costruita da non più di duecento parole ormai codificate e con una serie di principi operativi convenzionali formalizzati».

Un tema importante, questo, ripreso nel saggio di Gianfranco Battisti, “I popoli come obiettivo e come strumento”, che però lamenta come «oggigiorno, chi si azzardi a evocare la nazione corre il rischio di venir criminalizzato; si è coniato addirittura il termine sovranismo per indicare la corrente di pensiero che vuole fondare la politica dei popoli sulla loro identità nazionale. Si tratta evidentemente di una operazione ideologica – asserisce Battisti -, una mistificazione che tenta di nascondere la realtà delle cose. Di fatto, le nazioni esistono in quanto i popoli sono diversi fra loro: più per le loro caratteristiche culturali che per quelle razziali, sempre meno accreditate dalla scienza moderna».

Il mondo – ma questo avrebbero dovuto aspettarselo anche oltre Tevere – dopo la caduta del Muro di Berlino è però divenuto il mondo dei nuovi muri: nel 2018, anno di riferimento del Rapporto, si contano infatti settantasette nuovi muri, costruiti da quarantacinque Stati, e quasi tutti per impedire il transito di profughi e migranti economici.

In questo senso, Samuele Cecotti, parlando di “Negazione dei Legami culturali e ideologia globalista”, paventa il rischio «di trovarsi improvvisamente nel progetto di Repubblica Universale, sogno illuminista e meta dell’agenda globalista.

Un pensiero che «necessita il passaggio dal teorico al fattuale della riduzione dell’uomo a individuo, a unità aritmetica intercambiabile», varrebbe a dire «la distruzione di tutti i legami storico-naturali che vincolano l’uomo a una realtà a lui precedente e ne costituiscono l’identità personale».

E così, i legami costitutivi verso dio, la patria e la famiglia, «ovvero quei legami naturali che ogni uomo pio onora, debbono essere dissolti affinché l’individuo sia integralmente autodeterminato e l’umanità intera si dia come una massa di individui apolidi e dall’identità fluida».

Dio, patria e famiglia! Lo stesso slogan che si ode gridato in maniera ritmata e ossessiva nel corse delle sempre più partecipate manifestazioni delle estreme destre nelle cattolicissime Polonia, Ungheria e Slovacchia.

Proprio oltre quell’Oder-Neiße si sente più spesso evocare dio… «con Noi!»

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