ISRAELE, Difesa e politica. Situazione, minacce e propaganda: la strategia di Aviv Kohavi in attesa della prossima guerra

Era la vigilia del natale cristiano e, mentre il primo ministro uscente dello Stato ebraico si cimentava nelle primarie del suo partito con la speranza di rimanervi alla guida, presso l’autorevole università privata di una città costiera non distante da Tel Aviv, il capo di stato maggiore della Difesa lanciava tre importanti messaggi, niente affatto un esercizio di retorica

È andata proprio così, poiché mentre Benjamin Netanyahu – premier uscente incriminato dalla magistratura per corruzione – si batteva contro Gideon Saar, il suo giovane rivale interno al Likud, in una sala dell’Interdisciplinary Center di Herzliya, ridente città di mare a nord di Tel Aviv, il capo di stato maggiore delle forze armate israeliane (Israele Defense force o Tsahal) Aviv Kohavi coglieva l’opportunità offertagli dalla commemorazione del generale Amnon Lipkin-Shahak per lanciare all’opinione pubblica israeliana (e alla politica) tre precisi messaggi.

Il primo è che non sarebbe così remota la possibilità del raggiungimento di un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza che sia relativamente stabile nel tempo;

il secondo è stato un vero e proprio avvertimento riguardo al fatto che l’ipotetico prossimo conflitto nel quale lo Stato ebraico verrà coinvolto interesserà direttamente anche il territorio nazionale, quindi gli Israeliani dovranno prepararsi a questa evenienza incrementando la capacità di resilienza del fronte interno;

infine, l’Iran (e i suoi proxi) costituiscono la minaccia che il Paese contrasterà fino a rischiare una guerra ad alta intensità, ma in questo sforzo esso è stato lasciato solo.

Partiamo da quest’ultimo punto. Non pochi analisti e commentatori della realtà israeliana si sono detti convinti che il commento espresso dal comandante in capo delle forze armate, «sarebbe meglio se non fossimo gli unici a rispondere a loro», cioè alla Repubblica islamica degli ayatollah e ai suoi alleati, vada interpretato – al netto di significati più sibillini – nel senso di una velata critica alle posizioni più recenti assunte da Washington e da alcuni Paesi del Golfo Persico, un ammorbidimento nei confronti di quello che questi ultimi, al pari di Israele, considerano come “il nemico”.

A Herzliya Kohavi non si è fatto sfuggire l’occasione per ribadire pubblicamente come l’Iran costituisca la minaccia regionale posta allo Stato ebraico.

Negli ultimi tempi Teheran ha costituito una rete di basi operative avanzate, da dove è in grado sia di attivare i suoi proxi che di intervenire direttamente attraverso suoi dispositivi militari come la Quds Force nel quadro dei vari conflitti regionali – Iraq, Siria e Yemen – dove si è affermata come uno dei maggiori player.

Dato il proliferare delle specifiche minacce e dei teatri operativi dove esse vanno contrastate, per lo Stato ebraico l’Iran rappresenta oggi una minaccia militare diretta e immediata.

In cima alla lista nera c’è l’Iran col suo programma nucleare, un perdurante e tenace sforzo attraverso i suoi raffinati passaggi negoziali caratterizzati a volte dalla dialettica, altre da picchi momentanei di arricchimento dell’uranio, tutto nel quadro di un dialogo sul piano politico e strategico che non esclude l’esercizio di pressioni sugli interlocutori, siano essi gli  Stati Uniti d’America oppure l’Unione europea.

Ovviamente, al tentativo di raggiungimento della capacità nucleare (la bomba), si associa l’attività svolta nel settore dei vettori che si renderanno necessari a recapitare gli ordigni sugli obiettivi, e qui si colloca l’intensa attività di sviluppo di missili balistici sempre più precisi.

Nel corso del suo intervento – il primo a tal punto articolato su tematiche strategiche dal giorno del suo insediamento al comando nel gennaio scorso – Kohavi non ha usato mezzi termini: «È prevedibile che nel corso della prossima guerra anche il territorio nazionale israeliano divenga oggetto degli attacchi nemici sia dal fronte Nord che dalla Striscia di Gaza, senza escludere problemi anche in Cisgiordania».

Ma non solo, poiché non verrà esclusa la possibilità di un’estensione del conflitto anche ai paesi che consentiranno al nemico di operare sul campo di battaglia o, peggio, lo sosterranno, cioè Libano e Siria.

Il fronte Nord è il confine con il Libano e le alture del Golan, quindi anche tutto ciò che oggi c’è in quella parte della Siria, mentre invece Gaza vuol dire Hamas e le altre formazioni armate palestinesi minori presenti e attive nella Striscia.

Malgrado il logoramento derivante dall’impegno nel teatro bellico siriano – dove Hezbollah è stato uno degli elementi determinanti alla sconfitta degli jihadisti del sedicente califfato -, la milizia sciita del Partito di Dio libanese ha accresciuto e consolidato le proprie capacità militari, in particolare nella componente anticarro, antiaerea e della guerra elettronica.

Israele considera Hezbollah quale suo nemico principale regionale, che in un futuro conflitto porrà le maggiori difficoltà cagionando al contempo effetti più disastrosi a causa dei progressi tecnologici ottenuti dal suo strumento bellico.

In primo luogo nella panoplia di razzi e missili, maggiori nella quantità e incrementati nella precisione, nelle dimensioni delle testate e nella gittata.

Per quanto invece concerne Gaza, simbolo dell’irrisolta questione palestinese e vera e propria spina nel fianco per Israele, va registrato che, nonostante i vertici militari dello Stato ebraico affermino di auspicare un cessate il fuoco negoziato con Hamas in tempi relativamente rapidi, non escludono tuttavia un attacco militare alla Striscia qualora si ripetesse l’escalation degli attacchi con i razzi al territorio dello Stato ebraico.

Questo si concretizzerebbe in un sanguinoso (per entrambe la parti) scontro in aree prevalentemente urbanizzate e densamente antropizzate che, essendo sature di installazioni e strutture militari delle organizzazioni palestinesi, comporterebbe elevati rischi di effetti collaterali.

In ogni caso Gerusalemme, anche attraverso la fondamentale mediazione egiziana, starebbe negoziando un cessate il fuoco con Hamas, offrendogli quale contropartita a una messa in sicurezza del settore meridionale la fornitura di aiuti all’esausta popolazione palestinese.

In fondo si procede sulla falsariga della linea precedentemente perseguita da Netanyahu, che preferiva un accordo – almeno temporaneo –  con l’organizzazione islamista al potere a Gaza per avere mano libera nella propria politica degli insediamenti ebraici nel West Bank, sempre con la riserva mentale, però, che prima o poi la struttura militare di Hamas si sarebbe dovuta annichilire allo scopo di favorire un ritorno al controllo della Striscia da parte dell’Amministrazione nazionale palestinese.

Non è casuale, infatti – ha ammesso anche lo stesso Kohavi –, che, a differenza del passato, nel corso della battaglia ingaggiata in novembre contro la filo-iraniana Jihad islamica palestinese Tsahal non si sia accanita contro Hamas, concentrando gli attacchi quasi esclusivamente contro il secondo gruppo per importanza nella Striscia.

In quel frangente, la filiazione palestinese dei Fratelli musulmani aveva manifestato con evidenza la propria incapacità di contenimento dell’azione degli Jihadisti. In seguito la situazione è in parte mutata e, col sostanziale recupero del controllo della Striscia da parte di Hamas, si è registrata una sensibile riduzione dei tiri di mortaio e dei lanci di razzi contro il territorio dello Stato ebraico, evitando in questo modo un attacco israeliano su larga scala.

A questo punto sorge spontaneo un interrogativo: col suo discorso tenuto all’Interdisciplinary Center, Kohavi ha voluto instillare una tollerabile dose di paura nell’opinione pubblica israeliana nel tentativo di ottenere dai decisori politici che si insedieranno dopo le elezioni di marzo tutti i finanziamenti necessari al completamento del piano di aggiornamento e potenziamento dello strumento difensivo nazionale noto come “Tenufa”?

Certamente è una possibilità, e se lo è per davvero, significa che il vertice di Tsahal ha compreso bene qual è la leva psicologica per fare breccia nei cuori e nelle menti di una classe politica che, stante l’attuale fase di impasse politica e di stallo istituzionale, non è riuscita ad approvare quegli stanziamenti in bilancio che dovrebbero finanziare Tenufa nei prossimi cinque anni.

Nel Paese è diffuso un sentimento di insicurezza percepita e alla luce del quale si comprende meglio la misura delle parole pronunciate al riguardo del capo di stato maggiore a Herzliya.

Egli infatti, pur senza sminuire i pericoli, ha comunque respinto le veementi e reiterate critiche precedentemente mosse alla politica di sicurezza nazionale, rimarcando qual dovrebbe essere il giusto peso da attribuire a quella che, invece, è la sicurezza reale.

«Entro la prossima estate – ha rassicurato Kohavi – dovrebbero venire completate le opere difensive in fase di approntamento lungo la frontiera con la Striscia di Gaza», riferendosi alla nuova recinzione di sicurezza e alla barriera di protezione sotterranea che hanno la funzione di impedire le infiltrazioni di palestinesi armati in Israele.

In definitiva – e questa è la conclusione rassicurante tratta dal capo di stato maggiore delle Idf -, ad avviso dei vertici militari di Gerusalemme l’attuale capacità di deterrenza di Tsahal sarebbe in grado, almeno nel breve periodo, di scongiurare un conflitto.

Questo è quanto registrato nella giornata di martedì. Nel frattempo, nella serata di ieri si sono concluse le primarie del Likud, che hanno visto il trionfo di Netanyahu.

Adesso il focus della politica israeliana si concentra sulle prossime elezioni legislative anticipate indette per il 2 marzo, le terze in poco più di una anno, che sono il chiaro indice dell’impossibilità (o forse dell’incapacità) della classe politica di formare una solida maggioranza che possa governare il Paese in una fase difficile come quella attuale.

Archiviata (o forse sarebbe meglio dire congelata) per il  momento la controversa pratica relativa all’estensione della sovranità israeliana sulla Valle del Giordano, la questione degli insediamenti ebraici nel West Bank, centrale nell’aspro confronto che ha preceduto le primarie del Likud, torna ala ribalta nel dibattito politico.

Ieri, confermato dall’esito delle primarie alla guida del suo partito, Netanyahu ha festeggiato il suo momentaneo successo ad Ashkelon partecipando a un incontro con altri likudnik come lui. Ne aveva ben d’onde, dato che nelle urne ha ottenuto il 72% dei consensi, anche se va però rilevato che a votare è andato soltanto il 49% degli aventi diritto.

Una gioia che tuttavia qualche palestinese della Striscia di Gaza ha cercato di guastargli lanciando un razzo sulla città dal di la dalla barriera di sicurezza presidiata dai militari israeliani.

Sono subito decollati i caccia con la stella di Davide, che hanno bombardato alcuni obiettivi di Hamas.

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