ECONOMIA, Legge di Bilancio. Deficit e debito pubblico copriranno ancora le spese correnti?

Il prossimo 18 dicembre verrà presentata a Roma la Nota di aggiornamento del XIII Rapporto sull’economia italiana del Centro studi economia reale. Dalle anticipazione emerge l’urgenza di un cambio di passo nella politica economica; la proposta di due nuovi «patti» economici e sociali

A cura del Centro studi economia reale. Il Rapporto annuale redatto dal Centro studi economia reale viene presentato tra il giugno e il luglio di ogni anno e fa quindi riferimento a quanto emerge dal Documento di Economia e Finanza (Def) – originariamente Documento di Programmazione Economico-finanziaria (Dpef), che normalmente il governo presenta a fine aprile.

La Nota di aggiornamento del Rapporto – come quella qui presentata – viene resa pubblica tra novembre e dicembre, quindi fa diretto riferimento alla Legge di Bilancio che proprio in tale periodo è in discussione o in via di approvazione da parte del Parlamento.

Quella riferita al XIII Rapporto sull’economia italiana si articola come sempre in due parti. Nella prima vengono esposte le analisi elaborate sulla base dei dati storici recenti dell’economia italiana, nella seconda invece si propongono alcune previsioni per gli anni futuri a partire dal quadro internazionale ed europeo dal quale derivano le proiezioni sull’economia italiana.

Quindi si passa alla valutazione degli effetti che la legge di bilancio può determinare rispetto al profilo tendenziale, infine vengono proposte delle alternative di politica economica misurandone la maggiore o minore efficacia rispetto agli obiettivi che il governo si pone con la sua legge di bilancio, sia in termini di economia reale (crescita e occupazione) che in quelli di andamento finanziario (deficit e debito pubblico).

Due le analisi proposte: la prima si riferisce a uno studio effettuato per il Movimento Europeo Italia, che misura gli andamenti storici di tutte le economie europee dal 2000 al 2019, considerando sia i ventotto paesi dell’Unione che i diciannove dell’area euro, analisi basata sui dati ufficiali Eurostat.

Lo studio è mirato a verificare il grado di convergenza o di divergenza effettivamente verificatosi tra le diverse economie in questo ventennio, anche al fine di valutare in concreto quali effetti si sono prodotti a seguito del processo di integrazione 4 europea, che ha visto un forte allargamento dell’Unione e un processo di “approfondimento” che ancora oggi risulta zoppo.

Infatti, a fronte dell’introduzione della moneta unica e della Banca centrale europea, oggi non risulta ancora completato il processo di Unione bancaria e neppure si è proceduto all’introduzione di, almeno un embrione, di bilancio federale europeo da affiancare alla Bce e alla moneta unica, come indicato ripetutamente dallo stesso presidente Mario Draghi – recentemente avvicendato da Christine Lagarde – sin dall’annuncio del Quantitative easing e dalla sua netta affermazione relativa al «Whatever it takes».

Dall’analisi dei dati storici emerge che in termini di prodotto interno lordo (Pil) reale pro-capite c’è stato un processo di convergenza tra i vari paesi membri dell’Unione (catching-up), tuttavia più marcato tra quelli appartenenti alla zona euro.

Una convergenza che avrebbe potuto e dovuto essere più forte e accelerata, sta di fatto, però, che non risponde al vero che l’Unione europea e la moneta unica abbiano avuto effetti divergenti e dirompenti tra i vari Paesi.

Diverso potrebbe essere il ragionamento riferibile alla distribuzione dei redditi interna a ciascun paese, seppure vada rammentato l’assetto istituzionale che fa da contesto, cioè un’Europa intergovernativa nella quale il compito della redistribuzione interna dei redditi spetta a ogni governo nazionale.

Da questo punto di vista, taluni sostengono che i governi nazionali possono fare ben poco su questo specifico piano, poiché “limitati e forzati” dai vincoli comunitari, soprattutto da quelli vigenti per i Paesi che hanno adottato la moneta unica, ma dai dati storici questa appare una falsa vulgata.

Infatti, il Pil reale pro-capite ha conosciuto un incremento in tutti i Paesi membri, mentre, al contrario, le differenze tra loro si sono andate riducendo.

Pertanto, i governi nazionali con un Pil pro-capite via via crescente e in allineamento con la media europea avrebbero avuto la possibilità di redistribuirlo in modo più equo tra i propri cittadini, senza necessariamente dover sforare i parametri europei.

Tra i diciannove paesi dell’euro e i ventotto (presto ventisette…) dell’Unione europea l’unica “eccezione” è l’Italia, che dal 2000 al 2018 ha visto ridursi il proprio Pil reale pro-capite, passando da un 103% della media dell’area euro nel 2000 all’86% del 2018.

Rispetto all’Ue, il Paese nel 2000 era al 120% della media, ma nel 2018 è sceso al 95%, unico nel 2019 ad avere un Pil reale pro-capite inferiore a quello posseduto diciannove anni prima.

Questa “anomalia” italiana – evidenzia il Rapporto – non ha nulla a che vedere con i parametri europei, ma è in realtà collegabile a cause strutturali economiche tutte interne oltreché alle politiche economiche attuate dai vari governi nazionali.

Questo lo si può comprendere dalla seconda analisi, nel corso della quale sono stati confrontati diciassette Def e Nadef presentati dai sette esecutivi succedutisi alla guida del Paese negli ultimi dieci anni, da cui si rileva che il dibattito di politica economica si è sempre articolato su «numeri farlocchi» e su ricorrenti «magheggi contabili».

I numeri rivelano un aspetto paradossale, poiché nel periodo considerato l’Italia ha sempre fatto politiche di bilancio “restrittive” che frenavano la crescita a causa del livello e della composizione della spesa e delle entrate, senza fare austerità, continuando ad andare in deficit e, soprattutto, incrementando il debito pubblico, sia in valore assoluto che in percentuale del Pil.

In verità, alcune categorie si sono viste costrette a fare austerità, però altre hanno invece continuato a beneficiare ampiamente degli sprechi di spesa pubblica e delle mancate entrate da evasione fiscale.

E questo non è un paradosso, bensì un risultato noto della teoria della crescita economica, che trova conferma nella controprova empirica dei dati storici analizzati.

Di fatto, deficit e debito coperto le spese correnti, queste ultime aumentate al di là del parallelo aumento delle tasse. Dunque si è trattato di una decisione interna, e non imposta dall’esterno.

I dati, parametrati all’economia reale, mostrano minori investimenti pubblici e privati, maggiore spesa corrente, risparmio pubblico negativo (disavanzo di parte corrente) e produttività totale dei fattori in declino.

Andamenti tutti decisi – nei fatti e nei numeri – dai vari governi nazionali, non imposti dalla Commissione europea.

Un esempio concreto viene fornito dal famigerato limite del 3% al deficit pubblico con progressivo azzeramento.

Ebbene, tutti i governi italiani hanno affermato (soltanto a parole) di volerlo perseguire e rispettare per poi, in concreto, non realizzarlo, per di più lo hanno fatto aumentando la spesa corrente, le tasse e dimezzando gli investimenti pubblici.

Al Paese questo modo di perseguire l’equilibrio di bilancio non lo ha imposto nessuno, esso si è dimostrato un modo «vizioso e controproducente» in quanto ha portato a una riduzione della crescita amplificando al contempo gli squilibri di finanza pubblica.

Nella seconda parte della Nota di aggiornamento vengono esposte le previsioni del Centro studi economia reale sull’economia italiana, derivanti dal quadro internazionale ed europeo.

Su tale base tendenziale sono poi stati misurati i provvedimenti contenuti nella legge di bilancio 2020 e valutati gli effetti che ne potrebbero derivare.

Dalle simulazioni risulta che la essa nel 2020 avrà un impatto del -0,2% sulla crescita e un +0,1% nel 2021 e nel 2022, quindi un sostanziale «effetto zero» sulla crescita nel triennio.

Conseguentemente, l’effetto sui livelli di disoccupazione e su quelli occupazionali risulterà del tutto irrilevante.

A fronte di questo scarso impatto sull’economia reale, si pongono però elementi di rischio in termini di andamento della finanza pubblica, dato che il deficit pubblico si collocherebbe al 2,5% nel 2020 (superiore quindi all’obiettivo del 2,2%) e scenderebbe sotto il 2% soltanto nel 2022.

In valori assoluti, il debito pubblico salirebbe dai 2.361 miliardi del 2019 ai quasi 2.500 miliardi nel 2022, avvicinandosi alla soglia dei 2.600 miliardi nel biennio successivo.

In rapporto al Pil il prossimo anno il debito salirebbe al 134,5% (dal 133,2% del 2019) per poi scendere di qualche decimale di punto nel biennio successivo.

Rispetto a questo quadro – che assegna alla manovra proposta dal governo e in discussione al Parlamento effetti reali pressoché nulli e profili di finanza pubblica fragili e rischiosi – nel suo Rapporto il Centro studi economia reale propone una manovra ben più solida e consistente, poggiata su due patti economici e sociali.

Per lavoratori e famiglie si propone una riforma Irpef a tre aliquote, che prevedrebbe riduzioni di imposte sui redditi medio bassi di circa trenta miliardi di euro, con pari copertura da ottenere attraverso un taglio delle cosiddette «Tax Expenditure», mantenendo in vigore le deduzioni e le detrazioni di maggiore consistenza a beneficio di famiglie e lavoratori.

Per le imprese, invece, viene proposta una riduzione di trenta miliardi dei fondi perduti in conto capitale e in conto corrente, destinando tali risorse al taglio del cuneo fiscale, magari azzerando l’Irap per venti miliardi e aumentando gli investimenti pubblici per dieci.

Due patti sociali che avrebbero luogo con piena copertura, quindi senza neanche un euro in più di deficit e di debito pubblico.

I risultati ottenuti dalle analisi riportate nel Rapporto del Centro studi economia reale dimostrano che una manovra di questo tipo darebbe una significativa spinta alla ripresa della crescita e dell’occupazione, che avverrebbe con un contestuale riequilibrio della finanza pubblica, con un rapporto Debito/Pil che non aumenterebbe nel 2020 e sarebbe uguale a quello di quest’anno, per poi ridursi di circa il 2% all’anno negli anni successivi.

Sono tuttavia evidenti le difficoltà di natura politica di una manovra di questo tipo. Si tratterebbe infatti di aggredire il moloch dei 900 miliardi di euro di spesa pubblica totale e quello degli 850 miliardi di entrate totali.

Certamente, però, un «patto» con lavoratori e imprese potrebbe generare il necessario consenso in grado di fornire alle forze politiche e al governo quel maggiore coraggio che la grave situazione economica, finanziaria e sociale del Paese richiede con urgenza.

 

Nota di aggiornamento XIII Rapporto sull’economia italiana. Roma, mercoledì 18 dicembre 2019

Sessione mattutina, analisi.

Europa. Per completare l’UEM e garantire crescita, occupazione e reti sociali: analisi e stime degli effetti di un bilancio aggiuntivo pari all’1% del Pil area euro;

Italia. Venti anni di politica economica surreale su numeri farlocchi, con crescita asfittica e finanzia pubblica in crescente squilibrio.

Sessione pomeridiana, previsioni.

La manovra 2020 e i suoi effetti sull’economia e la finanza pubblica;

due patti economico-sociali: la proposta di Economia reale.

L’intero workshop verrà trasmesso in diretta streaming sul sito web di Radio Radicale (www.radioradicale.it), inoltre, in seguito la registrazione audio integrale dei lavori potrà essere ascoltata su questo portale di informazione, www.insidertrend.it

Condividi: