LIBIA, guerra e petrolio. Gli interessi di Italia e Francia e lo stallo involutivo nel Paese

La soluzione muscolare di Parigi e l’appiattimento sull’Onu di Roma. In Libia si combatte una “proxi war” con attori locali e globali, ma Haftar sarà in grado di prendersi tutto o per risolvere la situazione dovranno uscire di scena sia lui che il suo nemico al-Serraj?

La recente invasione militare turca della Siria ha distratto l’attenzione dell’opinione pubblica da un altro conflitto combattuto ormai da anni sulla sponda sud del mare Mediterraneo.

Quella in atto in Libia è allo stesso tempo una guerra civile e una guerra per procura, diretta proiezione del più vasto scontro intra-sunnita e sunnita-sciita nel quadro della ridefinizione degli equilibri di potenza, che ha come posta l’influenza sulla regione mediorientale e nordafricana (MENA).

La posta in gioco è l’esercizio dell’influenza su di esso, il suo controllo, e per ottenere questo risultato sono stati fatti divampare diversi incendi al suo interno: le guerre di Yemen, Siria e Libia.

Quella che sta dilaniando l’ex colonia italiana – un paese il cui territorio si estende dalle coste mediterranee fino all’insicuro Sahel – vede, in diversa misura, l’attiva presenza nel teatro bellico libico di diversi protagonisti, tutti portatori di propri interessi, sia che siano attori locali, regionali o globali.

Una guerra civile iniziata con la deposizione del precedente dittatore Muhammar Gheddafi, ottenuta grazie ai raid aerei della coalizione internazionale, un attacco scatenato per iniziativa dell’intraprendente Nicholas Sarkozy, allora inquilino dell’Eliseo, che trascinò con sé – più o meno controvoglia – i suoi alleati nella Nato, italiani compresi.

Anche di questi argomenti – oltre alle possibili soluzioni al perdurante conflitto e alle materie prime energetiche del Paese nordafricano – si è discusso nel convegno organizzato dal SIOI (Società italiana per l’organizzazione internazionale) che ha avuto luogo a Roma il 17 ottobre 2019, un incontro durante il quale l’attenzione è stata concentrata sul tema della comunanza e della divergenza degli interessi di Roma e di Parigi sulla Libia.

 

Passato, presente e futuro. Perché è stato deposto Gheddafi? Perché è scoppiata la guerra civile in Libia? Quanto sono divergenti e quanto invece convergenti gli interessi di Roma e di Parigi nel Paese nordafricano?

La Libia – si è affermato al SIOI – «è una necessita strategica per l’Italia e un’occasione strategica per la Francia», uno strano combinato composto che includerebbe visioni differenti riguardo a come dovrebbe essere il futuro processo di riconciliazione nazionale, visioni comuni in merito al contrasto del fenomeno terroristico e visioni simili (ma il concetto di similitudine non è tuttavia la medesima cosa di quello di coincidenza) sulla gestione delle risorse del sottosuolo, in primo luogo delle materie prime energetiche.

Il passato ormai non c’è più. Esso era rappresentato dal colonnello Gheddafi, considerato per decenni – ma da molti non compreso – un fondamentale «apripista» nella complessa realtà libica, laddove, senza velleità neocoloniali, Roma aveva nel tempo recuperato posizioni, questo in un quadro di normalizzazione dei rapporti bilaterali che avrebbe riflesso i suoi benefici anche in chiave europea (si pensi ai flussi migratori).

In un passato più recente (settembre e ottobre 2011), nell’immediatezza della deposizione e della brutale esecuzione sommaria di Gheddafi Italia e Usa (e Qatar) avevano avviato una missione esplorativa su richiesta dell’allora governo provvisorio di Tripoli finalizzata al reintegro delle varie milizie esistenti in un’unica forza armata nazionale e alla costituzione di un apparato di sicurezza efficiente.

Purtroppo quel processo di nation building sfumò nel nulla e, conseguentemente, i libici si ritrovarono lasciati soli con loro stessi, anzi, con i loro “mentori” arabi.

Il presente è noto: la Libia è spaccata in due e vive in una situazione di stallo involutivo caratterizzato dalle forti e dilanianti contrapposizioni interne. Ma, lasciati a loro stessi i libici da soli non ce la potranno mai fare.

 

Il buco nero. La Libia si trova in una situazione di stallo involutivo. Regna una sorta di caos organizzato (l’ossimoro è d’obbligo) dove gli attori principali – che sono quelli esterni – hanno tutti proprie agende.

L’insicurezza caratterizza questa fase. Si moltiplicano i traffici criminali, business nelle mani delle milizie (si contano circa 500 aggregazioni armate di varia natura) che hanno campo libero, mentre in alcune zone è anche possibile una re-insorgenza degli jihadisti che furono di Islamic State.

Allo stato attuale disarmare le milizie è praticamente impossibile. Un esempio deriva da quelle della Tripolitania, che giocano una partita importante, ma che sono fuori controllo.

Ghassan Salamè, il mediatore internazionale inviato in Libia, ne aveva denunciato all’Onu la pericolosità, ma al suo ritorno a Tripoli è stato minacciato di morte e si è visto costretto ad abbandonare in tutta fretta il Paese nordafricano.

Ovviamente è stato un allontanamento che ha fatto comodo a coloro i quali desiderano l’estromissione dell’Onu dalla Libia.

In ogni caso si tratterebbe di intervenire su realtà tribali multiformi, come in Fezzan o nel caso di tuaregh e berberi.

L’economia viene devastata dalle incertezze relative alle sorti della guerra e a un’eventuale processo di riconciliazione nazionale. Inoltre, a influire negativamente sono anche altri due fattori: la dilagante e capillare corruzione e la mancanza di trasparenza sulla gestione delle risorse del Paese.

 

Petrolio e potere. Secondo alcuni la NOC (National Oil Company, compagnia energetica di stato libica) avrebbe un ruolo egemone, sarebbe un attore locale addirittura «intoccabile».

Essa perseguirebbe una propria autonoma politica, interfacciandosi direttamente con la Banca centrale libica (ma ce n’è una sola oppure ce ne sono due?), che a sua volta persevera nella svalutazione della moneta nazionale, il dinaro, con impatti sui belligeranti.

Va rilevato, però, che in questo momento la NOC ha è una compagnia petrolifera con le ali tarpate, poiché priva di uno sviluppo e di una verticalizzazione industriale. Mustafa Sanalla, Chairman of the Board of Director, schiacciato dalle divisioni nel Paese non riesce a operare, quindi anche la sua compagnia è in stallo come il resto della Libia.

Anche se bandisce di continuo gare di appalto, le imprese estere non vi partecipano a causa della scarsa chiarezza riguardo alle eventuali linee guida tracciate per espansione della compagnia.

Lo stesso Sanalla è in bilico, contro di lui muovono non pochi avversari. A questo punto parte degli operatori del settore Oil & Gas auspicano un ritorno sulla scena di Saif al-Islam – uno dei figli di Gheddafi – ritenuto un top manager formatosi nelle università dell’Occidente. Quale ruolo potrebbe ricoprire?

Da Londra e Tunisi bocche chiuse al riguardo, nessun commento neppure da sua sorella che è in Qatar. Per ora, dunque, Saif andrebbe considerato soltanto come una ipotesi,  una carta che oggi non può essere giocata, ma magari a breve sì.

 

Che fare? Malgrado si stia mediando per addivenire a un cessate il fuoco la guerra è destinata a proseguire, essa verrà combattuta fino a quando a uno dei belligeranti risulterà conveniente farlo.

In una maniera o nell’altra nessuno dei belligeranti ha la forza per prevalere sul suo nemico, però tutti e due rifiutano il dialogo. Ma allora quali possono essere le soluzioni possibili?

Forse un diverso approccio al problema, tuttavia è difficile. Infatti, proseguire sulla via diplomatica implica la ricerca di una copertura da parte delle maggiori potenze mondiali attraverso (anche) i loro possenti strumenti militari.

È questo il nodo cruciale: ammesso che vogliano intervenire sulla Libia di comune accordo, a Italia e Francia «mancano gli alleati», poiché al difuori dell’ambito meramente diplomatico nessuno ha intenzione di impantanarsi in Libia.

Alla luce del sostanziale fallimento delle conferenze di Parigi e Palermo l’unica strada percorribile rimasta è quella del processo di Berlino, anche quella lastricata di difficoltà.

Al SIOI è stato sottolineato che in una prima fase sarebbe preferibile escludere i rappresentanti delle fazioni libiche dai negoziati, dando priorità al raggiungimento di una posizione comune a livello internazionale che trovi successivamente la sanzione dell’Onu.

Solo a questo punto si indirebbe una conferenza intra-libica nel corso della quale verrebbero affrontate le problematiche dell’unificazione delle istituzioni, dell’imposizione del rispetto dell’embargo sulle armi e del controllo dei flussi migratori.

La lezione ribadita nel corso del dibattito alla SIOI è che andrebbero evitati gli approcci condotti esclusivamente su scala nazionale, perché a volte la realpolitik porta fuori strada e puntare sull’uomo forte del momento non sempre è pagante, mentre è fondamentale il coinvolgimento degli attori regionali attivi nel teatro di crisi.

Questi sviluppi – si afferma – non potrebbero prescindere da un’opzione zero sugli attuali anziani capi delle principali fazioni in guerra, al-Serraj ed Haftar, personaggi ingombranti ritenuti non più sostenibili.

Tuttavia è di pochi giorni fa la dichiarazione resa alla stampa da Khalifa Haftar riguardo a una possibile candidatura di Saif al-Islam alle prossime elezioni politiche in Libia: «Non è un ostacolo – ha affermato – e ben venga come libero cittadino libico».

Come interpretare queste parole? Al momento la prospettiva di elezioni politiche non è all’orizzonte, ma i termini del problema cambierebbero radicalmente se il generale conquistasse per davvero Tripoli eliminando politicamente il suo nemico riconosciuto (formalmente) dalla comunità internazionale.

 

Di seguito è possibile ascoltare l’audio integrale del convegno organizzato dal SIOI

 

 

A196 – LIBIA, GLI INTERESSI DI ITALIA E FRANCIA NEL PAESE NORDAFRICANO: nel Paese nordafricano la situazione è di «stallo involutivo» e per giungere a una soluzione del conflitto c’è chi attende l’uscita di scena degli attuali belligeranti.

Quella combattuta in Libia è una guerra civile e allo stesso tempo una guerra per procura. Essa si inserisce appieno nell’attuale scontro di vaste proporzioni per la ridefinizione del potere e delle influenze in quella regione che fino a poco tempo fa veniva chiamata «Mediterraneo allargato», quindi «Mena» (Meddle East and North Africa) e che oggi qualcuno definisce «cindoterraneo», come a sottolinearne la mutevolezza di scenario e l’intervento di influenti soggetti esterni.

Una guerra che incendia l’ex colonia italiana, paese che dalle coste del Mediterraneo si estende fino alla turbolenta e insicura regione saheliana. Sono diversi gli interessi che inducono i vari attori regionali e globali a intervenire in diversa misura nel teatro bellico libico.

Una guerra civile iniziata con la deposizione del precedente dittatore Muhammar Gheddafi, provocata dai raid aerei e dalle operazioni speciali clandestine compiute prima e durante l’attacco della coalizione internazionale scatenato dal presidente francese Nicholas Sarkozy, che ha trascinato dietro di sé, più o meno controvoglia, i suoi alleati nella Nato, italiani compresi.

Anche di questi argomenti – oltre alle possibili soluzioni al perdurante conflitto e alle materie prime energetiche del Paese nordafricano – si è discusso nel convegno organizzato dal SIOI (Società italiana per l’organizzazione internazionale) che ha avuto luogo a Roma il 17 ottobre 2019, un incontro durante il quale l’attenzione è stata concentrata sul tema della comunanza e della divergenza degli interessi di Roma e di Parigi sulla Libia.

A esso hanno partecipato FRANCO FRATTINI (Presidente del SIOI, già ministro degli Affari esteri), GABRIELE CARRER (SIOI), FRANCO VENTURINI (giornalista del Corriere della Sera), LUCA GORI (diplomatico), ALESSANDRO POLITI (NATO Defense College Foundation),  AURÉLIEN P. R. DEL FIOL (Primo Segretario dell’Ambasciata di Francia a Roma), STEPHEN J. MARIANO (NATO Defense College).

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