SICUREZZA, carceri. Operazione verità: quello che la “narrazione ufficiale” non dice

«Buttiamo via la chiave!» Nelle sovraffollate galere italiane si vive (e si muore) malissimo, però, al disagio dei detenuti e degli agenti della Penitenziaria non corrispondono concreti benefici per chi è fuori. L’inerzia e l’ignavia della classe politica fa sì che tutto vada in malora. I provvedimenti che andrebbero adottati sono impopolari in termini di consenso elettorale, almeno finché i cittadini italiani verranno disinformati. Già, poiché statistiche alla mano risulta evidente che il reinserimento dei detenuti nella società contribuisce a ridurre la criminalità. Oggi la tradizionale iniziativa ferragostana del Partito Radicale

 «Chiudiamoli dentro e buttiamo via la chiave!», quante volte si sente pronunciare questa frase in giro per la strada, nel corso di una cena tra amici, a bordo di un autobus oppure quando si è in fila all’ufficio postale.

È istintivo per la gente comune reagire in questo modo di fronte a un fatto di cronaca, magari grave.

Si tratta di una reazione di pancia che, tuttavia, a quella stessa gente comune, onesta e convinta in buona fede che la soluzione draconiana della «dura detenzione» del reo costituisca la soluzione migliore al problema della delinquenza, recherà soltanto ulteriori disagi.

Ma perché accade questo se, nei fatti, il tasso di criminalità in Italia è in (seppur lieve) diminuzione e le città sono molto più sicure di molti altri centri urbani europei?

Perché in Italia l’opinione pubblica è profonda disinformata riguardo a non pochi aspetti della vita sociale e politica.

Infatti, la «narrazione» corrente descrive spesso in maniera distorta l’effettiva realtà ingenerando nelle persone allarmi e paure.

Ovviamente questo non significa che i problemi non esistano, poiché è vero il contrario: la criminalità organizzata controlla non indifferenti porzioni del territorio nazionale sottraendolo allo Stato, i flussi migratori in ingresso costituiscono indubbiamente un fenomeno concreto e urgente, così come le devianze, l’emarginazione e tutto il resto.

Malgrado la retorica politica tenti di accreditare soluzioni salvifiche, per essi non esistono però rimedi immediati che ne possano portare alla soluzione definitiva.

Esiste tuttavia il buon senso e soprattutto le leggi, in primo luogo la Costituzione della Repubblica.

Ma per i decisori politici risulta più facile cavalcare la tigre continuando ad alimentare il senso di pericolo nella gente e proponendo soluzioni apparentemente efficaci – come il pugno duro, l’autodifesa armata del cittadino o la carcerazione di massa – che invece rischiano esclusivamente di far scivolare il Paese sul piano inclinato di una deriva securitaria, pericolosa a causa dei suoi potenziali effetti sulla compressione dei diritti civili.

Ecco quindi la causa dell’inerzia e dell’ignavia della classe politica, inclusa la sua componente che si definisce progressista, per la quale certe iniziative non vanno assolutamente intraprese, in quanto controproducenti in termini di consensi elettorali.

Il principio che informa l’agire comune dei decisori e di parte degli amministratori è quello della cosiddetta «retributività della pena», cioè la sostanziale ingiustificata afflizione del reo.

«Chiudiamoli dentro e buttiamo via la chiave!» dunque, chiudendo tutti e due gli occhi su tutto ciò che accade all’interno di queste vere e proprie discariche sociali.

Un approccio al problema elettoralmente pagante nel breve periodo, ma certamente non conveniente sul piano dei diritti umani, della legalità e, non da ultima, della razionale e produttiva allocazione delle risorse pubbliche, il denaro versato dalla gente.

Se invece si ponesse concretamente mano all’Ordinamento penitenziario attraverso una serie di provvedimenti legislativi e regolamentari che rendano la pena inflitta al condannato (e non soltanto nelle forme della detenzione carceraria) davvero funzionale al suo reinserimento nella società civile si otterrebbero dei vantaggi.

Invece no. Le carceri italiane, sia quelle dove sono astretti i detenuti in attesa di giudizio che gli stabilimenti di pena, continuano a essere sempre più sovraffollate, luoghi dove non soltanto la macchina burocratica della Giustizia è lenta e non garantisce un regolare svolgimento dei procedimenti amministrativi che interessano i detenuti, come ad esempio e pratiche personali aperte che dovrebbero portarli a ottenere dei benefici qualora li meritino in termini di legge.

Ma non solo, poiché nelle carceri italiane si muore anche per malasanità.

L’Amministrazione penitenziaria, al pari delle altre Amministrazioni dello Stato, ha un costo che viene pagato dalla collettività, sia attraverso la fiscalità generale che attraverso i disagi derivanti dall’erogazione di un servizio non rispondente ai «termini contrattuali» che risiedono alla sua base.

È giunta quindi l’ora di pervenire a un’operazione verità, mediante una seria valutazione dei costi e dei benefici derivanti da un sistema penitenziario che al momento funziona male e produce altra recidiva, cioè la commissione di nuovi reati da parte di ex detenuti che nelle carceri italiane sono solo peggiorati.

Una battaglia civile che da anni vede impegnati i Radicali, anche oggi, come ogni ferragosto, in visita nelle carceri italiane.

Essi, nel solco tracciato nel passato da Marco Pannella, sottolineano come la narrativa demagogica di matrice forcaiola produca ulteriori guasti sul piano sociale.

Una visita agli «ultimi» e non solo a questi, poiché – come usano affermare – incontreranno i detenuti condannati o in attesa di giudizio, ma anche i detenenti, cioè le guardie che li sorvegliano e con loro formano la «comunità penitenziaria».

Settanta carceri verranno visitate da 278 tra dirigenti e militanti radicali e dagli avvocati dell’Unione Camere Penali, accompagnati da parlamentari della Repubblica e dai Garanti delle persone private delle libertà personali, una iniziativa che si protrarrà fino al 18 agosto.

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