IRAN, nucleare. Scade l’ultimatum degli ayatollah, riparte il processo di arricchimento dell’uranio

Il tempo è scaduto seppure il salvabile si possa ancora salvare. I persiani sono degli abilissimi negoziatori e hanno tutto l’interesse a che la situazione non precipiti: i sessanta giorni dell’ultimatum sono passati, ma non fa niente. Alla faccia dura dei vertici della Repubblica Islamica si alternano tuttavia i tweet conciliatori: Teheran chiede aiuto all’Unione europea, anche perché sa bene che per il momento Trump (che ha contro il Pentagono) no può tirare eccessivamente al corda

Alla scadenza dell’ultimatum fissato in sessanta giorni l’Iran dà seguito alle minacce e inizia ufficialmente la seconda fase del piano per ridurre i suoi obblighi previsti dall’accordo sul nucleare siglato nel 2015 (JCPOA).

L’obiettivo è l’aumento del livello di arricchimento dell’uranio dal 3,67% (limite stabilito negli accordi) al 5%, così come ha ufficialmente annunciato il portavoce del governo Ali Rabiei nel corso di una conferenza stampa congiunta con il viceministro degli steri Abbas Araghchi e il portavoce dell’Organizzazione dell’energia atomica iraniana (AEOI) Behrouz Kamalvandi.

L’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) ha reso noto che i suoi ispettori nella Repubblica Islamica faranno rapporto al quartier generale di Vienna al più presto, non appena verificheranno lo sviluppo annunciato da Teheran.

L’organismo di sorveglianza nucleare dell’Onu afferma di essere a conoscenza delle intenzioni iraniane di voler oltrepassare il limite imposto all’arricchimento dell’uranio dall’accordo del 2015, tuttavia ma non ha fornito ulteriori dettagli al di là di questo sintetico comunicato.

Il tempo è scaduto seppure il salvabile si possa ancora salvare. Infatti, i persiani sono degli abilissimi negoziatori e hanno tutto l’interesse a che la situazione non precipiti, benché abbiano – come per altro molti altri osservatori della materia – la quasi certezza che a Washington non si possa tirare troppo la corda dell’opzione militare (non è chiaro se Trump ne sia davvero convinto e, in ogni caso, ha contro buona parte del Pentagono).

E allora si continua a recitare sulla base del copione dell’ultimatum, che per l’Unione europea è bello che scaduto, poiché ormai i sessanta giorni previsti sono trascorsi.

Tuttavia, ai suoi partner europei nell’accordo nucleare gli iraniani hanno fatto capire (ma d’altronde si capiva benissimo) che vogliono salvare l’intesa da cui gli Usa si sono ritirati nella prospettiva di strangolare economicamente un Paese già oltremodo provato imponendo un’ulteriore stretta sui commerci come effetto delle sanzioni.

Ovviamente, oggi è il giorno delle dichiarazioni a uso mediatico, che in situazioni come questa non possono certo mancare.

E allora, per il viceministro degli esteri iraniano Abbas Araghchi «il passo ribadito oggi da Teheran è pienamente legittimo», poiché «l’Iran ha atteso inutilmente una soluzione diplomatica per un anno».

E poi l’Aiea, che a stretto giro di posta ha reso noto che farà al più presto verifiche sull’uranio degli ayatollah. La stessa organizzazione delle Nazioni Unite si riunirà mercoledì prossimo per un vertice d’emergenza richiesto da Washington a seguito della decisione annunciata da Teheran.

Quindi l’Unione europea, che per bocca di una portavoce dell’Alto rappresentante per la Politica estera comunitaria Federica Mogherini, si è detta «estremamente preoccupata per l’annuncio iraniano di avere iniziato l’arricchimento di uranio oltre il limite del 3,67 per cento», proseguendo che Bruxelles si appella all’Iran «affinché esso blocchi tutte le attività che contraddicono gli impegni presi», ammonendo infine che «l’Unione europea è in contatto con gli altri firmatari dell’accordo del 2015 sul nucleare per decidere “prossimi passi”, restando nel frattempo in attesa di ulteriori informazioni da parte dell’AIEA».

Ma ben presto da Gerusalemme si è fatto sentire anche il premier israeliano uscente  Benjamin Netanyahu, che è tornato a chiedere all’Europa il ripristino delle sanzioni all’Iran dopo l’annuncio di Teheran del superamento delle quote di uranio arricchito, «un superamento – ha chiosato “Bibi” – che ha il solo uno scopo di produrre bombe atomiche e che dunque è una mossa molto, molto pericolosa».

In precedenza, nel corso di una riunione di gabinetto che ha avuto luogo a Teheran il presidente della repubblica Islamica aveva avvisato che l’uranio iraniano non sarebbe più stato al livello del 3,67%, ma non aveva poi specificato con precisione quale tasso avrebbe raggiunto, concludendo che si sarebbe potuto trattare di «un livello qualsiasi», purché definito sulla base dei bisogni del suo Paese.

È noto che l’Iran aveva cessato di tendere a un arricchimento a un livello del 20% per effetto dei termini dell’accordo internazionale stipulato nel 2015, quando alla Casa Bianca c’era Barack Hussein Obama.

Lo stessoRouhani ha poi fatto esplicito all’impianto nucleare di Arak, sul quale il contenzioso è più acceso data la sua capacità di produrre plutonio.

Tuttavia anche dal presidente iraniano sono giunti segnali di flessibilità, egli infatti ha lasciato spazio a possibili compromessi raggiungibili magari all’ultimo minuto, dichiarando che «le misure intraprese sono tutte reversibili nell’immediato termine, quindi si potrà tornare al JCPOA da un momento all’altro».

Per quanto riguarda l’eccedenza di uranio oltre le quote consentite dall’accordo, ha proposto di esportare il prodotto in più verso destinazioni come la Russia.

E così si giunge all’ultimo capitolo di questa lunga e controversa vicenda, con il ministro degli Esteri e gran negoziatore iraniano Mohammad Javad Zarif che martedì scorso attraverso un tweet ha annunciato che «le misure annunciate dall’Iran, che intende aumentare l’arricchimento dell’uranio oltre i limiti dell’accordo nucleare del 2015, nonché gli eventuali passi successivi devono venire considerati “reversibili”, tuttavia questo dipende soltanto dal rispetto degli impegni assunti da Francia, Germania e Regno Unito».

Si tratta di un’evidente richiesta agli europei di sostegno politico alla posizione del suo Paese, nonché, al medesimo tempo, una ferma presa di posizione al fine di preservare l’accordo nucleare e contrastare l’aggressivo unilateralismo statunitense.

Con l’avvento di Donald Trump alla Casa Bianca si è assistito a un rapido deterioramento della situazione. L’amministrazione americana in carica ha avviato una campagna di strangolamento dell’economia iraniana con l’evidente scopo di provocare un regime change a Teheran.

È una guerra a tutti gli effetti combattuta con strumenti diversi da quelli “cinetici”. Per il momento niente missili Tomahawk o altri ordigni di precisione – almeno (forse) non direttamente impiegati sul territorio della Repubblica Islamica -, bensì esercizio della massima pressione di natura economica e, nei vari conflitti in atto nella regione circostante, totale impegno militare per mezzo degli alleati locali, che combattono quelle proxi war destinate a prosciugare della forza Teheran e i suoi alleati libanesi, siriani, iracheni e yemeniti.

In particolare, Washington ha puntato sul petrolio per anemizzare le entrate finanziarie iraniane, utilizzando l’embargo allo scopo di azzerarne i redditi. In ogni caso si tratta di un obiettivo di non facile conseguimento, date le capacità “genetiche” degli iraniani di resistere a questo genere di attacchi.

Lo hanno dimostrato a partire da quando subirono la guerra di aggressione irachena scatenata da Saddam, che durò otto anni e fece un milione di morti. Poi anche in seguito. I persiani non solo ottimi negoziatori, ma anche bravi elusori di embarghi.

Quanto ancora potrà andare avanti non è dato sapere, l’auspicio è che il minuetto degli ultimatum e delle roboanti dichiarazioni lasci la scena a una concreta ripresa dei negoziati. Ma anche in questo caso oggi si è di fronte a un’incognita.

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