MEDIO ORIENTE, Iraq. Kurdistan, combattimenti tra Pkk ed esercito turco

Violenti scontri in atto da ieri sera presso la città di Sidakan, nell’area montana di Bradost a 90 chilometri da Erbil. Le forze armate di Ankara hanno bombardato con gli elicotteri, panico tra i civili dei villaggi vicini

Riesplode il conflitto mai sopito tra Ankara e il Pkk (Partiya Karkerén Kurdistan, Partito dei Lavoratori del Kurdistan), questo a distanza di pochi giorni da quella che poteva essere interpretato come un segnale di possibile trattativa segreta tra i curdi di quella formazione e le autorità turche, cioè la concessione ad Abdullah Öçalan, il leader del Pkk detenuto a İmrali, di incontrare i suoi avvocati dopo otto anni.

I violenti scontri sono divampati ieri sera nelle montagne di Bradost, a circa novanta chilometri a nordest di Erbil, capoluogo nella regione autonoma del Kurdistan iracheno. Lo ha riferito l’emittente curdo-irachena “Kurdistan 24”, che ha inoltre precisato che i combattimenti sono iniziati alle sette della sera (ora locale) nei pressi della città di Sidakan. Nel corso delle operazioni contro la milizia curda, l’esercito turco avrebbe fatto ricorso a elicotteri per bombardare il nemico, diffondendo il panico tra gli abitanti dei villaggi adiacenti.

 

Bradost e il Kurdistan iracheno. Prima delle elezioni turche del 2018 la possibile occupazione di Bradost e Qandil ha costituito uno degli argomenti centrali sia nella discussione pubblica nei media che nella propaganda dell’AKP del presidente Recep Tayyip Erdoğan.

Alcuni analisti riconducono l’interesse di Ankara per la regione curda dell’Iraq non soltanto al suo sforzo profuso all’annientamento del Pkk, ma anche a un contesto strategico di più ampio respiro maturato in anni più recenti, che rinverrebbe però nell’Iran degli ayatollah uno degli obiettivi.

In questo senso, almeno fino al momento in cui i rapporti tra Ankara e Washington non si sono andati deteriorando, Usa, Regno Unito e altre potenze regionali avrebbero fatto affidamento sulla Turchia per intensificare la pressione su Teheran.

Quale contropartita per questo impegno – sempre secondo tale lettura dei fatti –   Ankara avrebbe beneficiato degli effetti dell’Accordo di Minbic, che oltre a rafforzare la posizione politica di Erdoğan sul piano interno, avrebbe potuto consentire un allargamento delle zone militarmente occupate dalle forze di Ankara in Rojava e nel Kurdistan del meridionale.

Tuttavia, l’attuazione di tale piano non condusse ai risultati previsti, poiché la reazione della guerriglia in corso fin dal mese di marzo ne impedirono la riuscita precludendo conseguentemente anche i presupposti di un’eventuale attacco all’Iran.

I preparativi turchi per un intervento militare a Bradost iniziarono nel dicembre 2017, mentre l’anno seguente presero avvio le operazioni. Da marzo ad aprile la regione venne bombardata quasi quotidianamente, ma nonostante la forte pressione esercitata sulla guerriglia la penetrazione terrestre in profondità dell’esercito turco fu soltanto di cinque chilometri, ma al costo di perdite sostenute, oltre 270 uomini.

 

Siria e Iraq, la strategia di Ankara. fascia di sicurezza ed eliminazione del Pkk. Nel 2016 l’obiettivo dell’operazione “Scudo dell’Eufrate”, condotta in territorio siriano dalle forze armate di Ankara, fu l’assunzione del controllo dell’autostrada M4, che scorre parallela alla linea di frontiera turca, quest’ultima estesa per 912 chilometri, dalla costa mediterranea all’Iraq.

Una volta assunto il controllo della città di al-Bab per i turchi si concluse (almeno in parte) lo slancio offensivo, poiché il successivo centro urbano posto sul fondamentale asse viario che avrebbero incontrato nel caso del prolungamento della loro avanzata sarebbe stato Mambil, allora nelle mani dello Ypg (Yekîneyën Parastina Gel, Unità di protezione del Popolo, nota anche come “Unità di Difesa Popolare”), cioè della milizia armata del Pyd (Partiya Yekitiya Demokrat, Hizb al-Ittihad al-Dimuqratiy, Partito dell’Unione Democratica), considerato il «braccio siriano» del Pkk.

In passato, infatti, gli jihadisti dell’Isis erano riusciti a colpire il territorio turco lanciando missili o mediante tiri di artiglieria effettuati da postazioni a ridosso della frontiera, azioni che nel 2016 provocarono gravi perdite tra i civili. Una minaccia eliminata soltanto col controllo di quella fascia della Siria nordoccidentale da parte dei militari di Ankara.

La successiva operazione “Ramo d’ulivo” fu invece preordinata allo scopo di impedire alla milizia curda dello Ypg di bersagliare il territorio turco con i suoi missili, oltreché di mettere in sicurezza il poroso confine, che offriva varchi ai contrabbandieri e ai terroristi.

Quando nel 2018 Erdoğan annunciò pubblicamente il previsto avvio di un’operazione militare di «limitate dimensioni» gli analisti dello scenario ritennero che i reali scopi di Ankara potessero essere quelli di interdire ai propri nemici l’intero corridoio tra l’autostrada e la linea di frontiera, una fascia di sicurezza limitata dalla sponda occidentale del fiume Eufrate, sulla base di un piano originario che ne prevedeva la totale bonifica. Un piano reso possibile anche dalla perdita di buona parte del controllo del territorio da parte delle forze governative siriane del presidente Bashar al-Assad.

L’ermetica chiusura della frontiera si sarebbe aggiunta alla preesistente barriera difensiva approntata tra il 2016 e il 2018, un dispositivo di sicurezza munito di sistemi di sorveglianza tecnologicamente avanzati e presidiato da ingenti forze.

Nonostante tutto, però, i problemi sul lato siriano della frontiera permanevano aperti. Non soltanto a causa della notevole presenza di gruppi islamisti armati, ma anche e soprattutto di quella dei curdi, che nel tempo si erano assicurati il controllo di fasce di territorio dalla località di Kobane a quella di Telabjad, e che Ankara voleva eliminare.

Ma non solo, poiché sempre attraverso la medesima operazione militare (qualora sia in grado di portarla a termine e americani permettendo), spingendosi in avanti i turchi si installerebbero ai valichi di confine con l’Iraq, obiettivi per loro di fondamentale importanza in quanto attraverso di essi transitano armi, materiali e militanti curdi.

Tall Afar, nella regione montana nordoccidentale irachena del Sinjar è il più importante punto di transito. In questa zona vive una popolazione di etnia curda che professa la religione ezida, gente che nel recente passato ha subito terribili massacri per mano degli jihadisti del «califfato» di al-Baghdadi e che è stata poi liberata dalle milizie del Pkk.

Ed è proprio nel Sinjar che il Pkk ha avuto quindi la possibilità di costituire proprie installazioni, tra le quali la sua seconda base per ordine di importanza. Non stupisce dunque che Ankara rivolga sull’Iraq le sue attenzioni.

In particolare, la regione in oggetto riveste importanza strategica in ragione delle sue vie di comunicazione, passaggi obbligai tra Iraq e Siria non soltanto a beneficio dei combattenti curdi, ma anche del regolare afflusso di rifornimenti diretti dall’aeroporto di Erbil al contingente statunitense presente nella Siria orientale (circa venti postazioni).

Condividi: