Xi Jinping non ha incontrato personalmente il pontefice, tuttavia si è recato con la consorte nella Cappella Palatina di Palermo, storica chiesa del capoluogo siciliano, restandoci dentro estasiato mezz’ora in più rispetto a quanto previsto nel protocollo della visita di Stato. Nella diplomazia non scritta dei gesti, il gesto andrebbe interpretato come il segnale tanto atteso oltre Tevere. Al gesuita Bergoglio si aprirebbe dunque la strada per Pechino.
Va registrato che, con la discrezione propria di una delegazione della Repubblica Popolare, dei comunisti cinesi si sarebbero recati in ogni caso oltre Tevere, cementando così il dialogo bilaterale. Seppure informalmente, le relazioni diplomatiche tra Cina Popolare e lo Stato della Città del Vaticano sarebbero ormai avviate. Xi Jinping a Roma non ha incontrato direttamente il papa, ma si parla sempre più dell’accordo segreto per la selezione interna dei vescovi cinesi.
Non molto tempo fa, soltanto nel 2015, in alcune province orientali le autorità della Repubblica Popolare fecero abbattere oltre 1.500 tra chiese e croci dai tetti dagli edifici di culto. Si tratta di aree popolate da numerose comunità di fedeli cristiani, sia di credo protestante che cattolico, gente perfettamente inserita all’interno del tessuto sociale ed economico che in buona parte esercita attività commerciali o imprenditoriali. Dal 2014 il segretario locale del Partito comunista – ritenuto vicino a Xi Jinping, allora “soltanto” segretario generale del Partito comunista cinese -, temendo che tali comunità divenissero interlocutori importanti del stato centrale, dispose quale contromisura l’eliminazione dei simboli religiosi cristiani dall’orizzonte delle città. All’azione probabilmente sottese anche l’intento di liberare dagli edifici aree che, nei progetti urbanistici elaborati per il 2020, si vorrebbero destinare alla creazione di zone commerciali e alberghiere, cioè una speculazione edilizia in piena regola.
Ovviamente, per non apparire come un persecutore delle religioni, ricorse al classico pretesto della risistemazione urbanistica delle città che avrebbe comportato l’abbattimento o la modifica degli edifici “non a norma”. Paradossalmente a essere colpiti furono anche numerosi edifici sacri che avevano ricevuto l’autorizzazione dal ministero per gli affari di culto da Pechino, quindi in regola con le legge. Un atto d’imperio di un satrapo locale in difficoltà. Dunque, con ogni probabilità il governo centrale era favorevole a un provvedimento che teneva sotto controllo schiacciandole anche le comunità cristiane “ufficiali”, lanciando loro un monito tra le righe: «Attenzione, perché il Partito è ancora il padrone della vostra fede». I fedeli non ebbero il diritto di ribellarsi e, conseguentemente, si verificarono scontri con la polizia e arresti di pastori e preti che cercarono di opporsi alle distruzioni delle chiese. Il governo varò dei provvedimenti di legge che accrebbero il controllo e le restrizioni sull’esercizio del culto.
Nonostante la situazione non sia più quella degli anni Cinquanta e il livello di conflittualità sia sensibilmente diminuito, il problema della libertà religiosa permane però aperto, unitamente a quello della coesistenza tra vescovi della Chiesa patriottica cinese (indipendente e separata da Roma) e vescovi in rapporto gerarchico con la Chiesa cattolica romana, cosiddetti «clandestini». Qualcosa starebbe comunque cambiando, nel recente passato dal complesso sistema dei centri di potere del Paese comunista sono affiorati in superficie gli echi dei contrasti. In particolare quelli delle resistenze opposte dalla cosiddetta Chiesa patriottica cinese alle aperture fatte dello stato centrale comunista al Vaticano. Un’apertura, sicuramente graduale e strettamente sorvegliata, che però nella Chiesa patrottica ha ingenerato i timori insiti nel previsto proselitismo di oltre Tevere, potenziale strumento di induzione al passaggio di numerosi fedeli cinesi al cattolicesimo romano.
La normalizzazione delle relazioni, un primo passo: l’accordo pastorale e non politico del 2018. L’intesa raggiunta e provvisoriamente definita “accordo provvisorio” rinvenne sanzione a Pechino il 22 settembre dello scorso anno, quando monsignor Antoine Camilleri (sottosegretario per i Rapporti della Santa Sede con gli Stati) e Wang Chao (viceministro degli Affari Esteri della Repubblica Popolare cinese) firmarono il documento «frutto di un graduale e reciproco avvicinamento raggiunto dopo un lungo percorso di ponderata trattativa» , preannunciato da un articolo pubblicato alcuni giorni prima dal quotidiano “Global Times”, testata indicato come sostanziale emanazione del Partito comunista.
Sulla base di esso il capo della Chiesa cattolica ottenne il riconoscimento di autorità religiosa dal governo cinese e poté quindi istituire nuove diocesi in Cina. I presuli, invece, sarebbero stati selezionati in maniera partecipata tra Roma e la Conferenza episcopale locale (sostanzialmente una assemblea dei vescovi cinesi monitorato dallo Stato). L’accordo provvisorio sembrò preludere a una riconciliazione da sancire ufficialmente in occasione del viaggio in Italia di Xi Jinping, ma probabilmente i tempi non erano ancora maturi.
Si trattò di un risultato, ottenuto grazie al sottile lavoro diplomatico del cardinale Pietro Parolin, porporato gradito dai vertici di Pechino e artefice dell’approccio alla Cina del precedente pontefice, Benedetto XVI, mediante la nota “lettera” ai cattolici cinesi del 2007, ritenuto un punto di svolta dopo decenni di tensioni e persecuzioni. La Santa Sede dovette faticare molto per conseguire questo risultato, lottando contro le resistenze interne (settori della Chiesa come quello facente capo al cardinale Joseph Zen, arcivescovo emerito di Hong Kong, fortemente critico riguardo al dialogo con Pechino) ed esterne, come quelle delle chiese “patriottiche” locali e degli Usa, che si oppongono strenuamente al dialogo perché contrari a ogni genere di apertura fatta alla loro potenza rivale.
Un accordo che, tuttavia, ancora non ristabilì piene relazioni diplomatiche, interrotte nel lontano 1951 dopo la presa del potere da parte di Mao Zedong e rese ulteriormente difficoltose dal riconoscimento vaticano di Taiwan. Nel frattempo, però, è assiso al soglio pontificio Jorge Mario Bergoglio, un papa “aperturista” che ha subito manifestato il desiderio di compiere un viaggio in Cina, paese dove vivono oltre dieci milioni di cattolici. Non solo, Bergoglio cancellò la scomunica contro quei vescovi cinesi nominati al di fuori del mandato pontificio, in seguito la nomina del cardinale Parolin a capo della Segreteria di Stato vaticana rese quindi più facilmente percorribile il sentiero del dialogo.
La prima ordinazione di un vescovo da parte di ordinandi in comunione col pontefice di Roma e con previa autorizzazione dei funzionari dello Stato cinese avvenne nell’agosto 2015, era da tre anni che in Cina non venivano più effettuate ordinazioni. In quella fase il confronto sulle eventuali modalità di apertura diplomatica al Vaticano era ancora aperto e aspro, e opponeva da un lato il ministero degli affari religiosi, la Chiesa patriottica cinese (cioè gli apparati di controllo dei culti religiosi), dall’altro il ministero degli esteri, su posizioni di maggiore disponibilità all’apertura e al dialogo.