REGNO UNITO, Brexit (2). Britannia rule ok! Le incognite sulle conseguenze economiche: i molti svantaggi e i pochi vantaggi.

In assenza di una soluzione positiva del negoziato, cioè di un qualunque scenario che riceva l’approvazione dal parlamento di Londra, il Regno Unito uscirà dall’Unione Europea il giorno 29 marzo 2019. Entro il 13 febbraio la premier Theresa May si sarebbe dovuta ripresentare alla Camera dei Comuni con i mano almeno uno straccio di risultato del suo infinito supplemento negoziale.

 

 

L’esito è stato quello previsto: negativo. Quindi rimane davvero poco tempo per trovare una soluzione alternativa alla questione. A quella fatidica data dovrebbe scattare un regime transitorio la cui durata prevista è fino al 2020, il cosiddetto Withdrawal Agreement. Però si tratta di una transizione che potrà avviarsi soltanto se nel frattempo sarà stato raggiunto un accordo tra Londra e Bruxelles, cioè solo se il “deal” verrà approvato, poiché esso è parte integrante del complesso delle regole che disciplineranno la separazione.

 

 

Il “deal” non è ancora stato approvato da Westminster, quindi si aprono alcuni diversi scenari: lo scenario peggiore (il cosiddetto Crash Out), quello che cercherebbe di recuperare parti dell’accordo con l’Ue al fine di rendere meno traumatica possibile l’uscita britannica e, infine, quella della revoca unilaterale dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, attraverso la quale il governo May revocherebbe la Brexit, ma quest’ultima ipotesi resta sub judicis, in quanto su di essa si attende la pronuncia della Corte di Giustizia europea.

 

 

Una delle tre ipotesi esplorabili contemplate nella possibile rinegoziazione con Bruxelles, quella che farebbe permanere i britannici nell’unione doganale, incontra però tutta una serie di ostacoli, non ultimo quello del libero movimento delle persone attraverso i confini, un aspetto sul quale la May ha sempre assunto una posizione intransigente. Al riguardo l’Unione europea nell’eventualità di una hard Brexit ha approntato delle misure di emergenza da applicare nel caso si rendesse necessario.

 

 

Sono tre provvedimenti: la garanzia degli studenti che beneficeranno dei programmi Erasmus alla data della separazione, la tutela dei cittadini comunitari in pensione che in passato hanno lavorato nel Regno Unito e la garanzia della copertura finanziaria nel bilancio 2019 fornita ai programmi in atto. Oltre tre milioni di cittadini provenienti da Paesi membri dell’Unione europea vivono attualmente nel territorio del regno Unito, di questi gli italiani regolarmente registrati sono 300.000, mentre i britannici nella Ue sono circa un milione; 14.000 sono invece i giovani che studiano oltre Manica e 7.000 studenti britannici frequentano corsi nei Paesi Ue, a tutti questi studenti verranno garantite fino al completamento dei corsi le borse di studio Erasmus precedentemente ottenute.

 

 

Ovviamente la Brexit rifletterà i suoi effetti sui rapporti economici in essere in Europa, in particolare nel caso si concretizzasse l’ipotesi peggiore, quella del “No Deal”. In questa fase di stallo e di incertezza gli economisti hanno delineato alcuni scenari futuri improntati al pessimismo, mentre ansia e preoccupazione avrebbe pervaso gli operatori economici e finanziari che attendono gli sviluppi degli eventi. La situazione è oggettivamente difficile e, conseguentemente, le imprese commerciali e la City hanno elaborato dei piani di contingenza prefigurando strategie e scenari alternativi. Il tempo incalza e il timing viene dettato dalla data formale di uscita del Regno Unito dalla Ue, le ore 11:00 del 29 marzo 2019.

 

 

Uno dei tanti problemi da risolvere sarebbe quello della creazione altrove, e in termini temporali estremamente ristretti, di un ecosistema finanziario come quello oggi esistente e operante nella City, una piazza finanziaria alternativa quella londinese. Un’impresa davvero difficile, perché all’ombra della cattedrale di Saint Paul si sono sedimentate tutte le competenze umane e le strumentazioni tecnologiche indispensabili alla gestione della finanza moderna. Senza contare poi dell’ottimale cornice legale posta a regolamentazione dello svolgimento delle transazioni. Londra è la più importante dopo Wall Street, di risulta tutti gli asset denominati in pound potrebbero perdere parte del loro valore. Nel mondo della finanza «i topi si apprestano ad abbandonare la nave che affonda»: City Group starebbe trasferendo la sua sede a Parigi, mentre JP Morgan e Goldmann Sachs hanno raddoppiato i propri organici nelle loro sedi di Milano.

 

 

Tuttavia nella città lombarda non dovrebbero farsi troppe illusioni, poiché con ogni probabilità essa non diventerà il rifugio per i grandi gruppi finanziari in esodo da Londra. In questo momento il “rischio paese” in Italia è troppo elevato per scelte del genere, principalmente a causa degli sviluppi politici interni, dunque, in molti guardano con favore alla capitale francese, malgrado sia più costosa. La Brexit si colloca in uno dei momenti peggiori attraversati dall’economia europea, caratterizzato da un secco rallentamento. Si registrano le prime significative riduzioni del Pil sia in Germania che in Italia, paese, quest’ultimo, addirittura sull’orlo di una recessione.

 

 

Il pericolo è che dall’oggi al domani nel Regno Unito venga a cessare la validità delle regole comunitarie fino a quel momento in vigore. Un’uscita senza accordi sarebbe traumatica poiché si scaricherebbe direttamente su un’eurozona fortemente vulnerabile. Infatti, la politica monetaria non convenzionale della Banca centrale europea, che ha generato un’espansione economica, sta attraversando la fase terminale del suo lungo ciclo, questo a fronte dell’assenza – almeno al momento – di strumenti di natura fiscale da utilizzare in chiave compensativa.

 

 

Nel caso di un “No Deal” l’Europa si vedrà costretta ad assumere misure di emergenza. Ma viene ipotizzato anche un possibile effetto a catena reso possibile dai saldi legami di interdipendenza dell’economia mondiale, che attraversa due contestuali criticità: la situazione cinese – difficilmente fronteggiabile da Pechino attraverso l’utilizzazione dei classici strumenti dell’espansione del credito e della riduzione fiscale già sperimentati nel recente passato – e la forte caduta della borsa negli Usa, con la riforma fiscale del presidente Trump utilizzata finora per sostenere (anche artificialmente) la ripresa, uno shock che è previsto prodursi nonostante l’intervento in funzione mitigatrice della Federal Reserve.

 

 

La Brexit impatterebbe quindi su una tendenza alla stagnazione dove si sommerebbero il rallentamento cinese, la caduta di Wall Street e il crollo britannico. Al riguardo, la stessa Bank of England per il 2019 vede nero, le sue stime danno una caduta in un anno del Pil britannico all’8% in caso di hard Brexit. Uno shock iniziale che si assocerebbe a una pesante svalutazione della sterlina, si prevede del 25%, e a un conseguente incremento dell’inflazione. Si tratterebbe di effetti superiori a quelli registrati a seguito della crisi del 2008, quando il Pil britannico crollò del 6%, cioè un qualcosa di paragonabile soltanto alla crisi indotta dallo shock petrolifero del lontano 1973.

 

 

Negli scenari meno catastrofici la situazione si delineerebbe comunque grave, permanendo marcata la flessione del Pil, l’aumento dell’inflazione, la svalutazione della moneta nazionale e l’inevitabile incremento del tasso di disoccupazione. Non va poi dimenticato che la Brexit, così come si sta perfezionando, sarà destinata ad alimentare ulteriori problematiche di natura sia politica che di sicurezza nell’Ulster. Il backstop – dal quale il governo May vorrebbe uscire unilateralmente e sul quale si gioca la sua traballante coalizione conservatrice -, se superato porterà al ristabilimento delle dogane tra il Regno Unito e l’Eire, con tutte le conseguenze del caso, a cominciare dalla contea di Armagh. A questo punto Londra cercherà di rafforzare le proprie relazioni con Washington allo scopo di assumerne il ruolo di partner fondamentale in termini commerciali, anche a scapito delle relazioni Usa-Ue. Tuttavia, anche questo sarà un obiettivo non facile da conseguire, dato che la politica protezionistica di Trump ne costituirà un ostacolo. Certamente, quella tra Londra e Washington è una relazione storicamente privilegiata, seppure negli ultimi tempi siano stati registrati degli scollamenti dovuti agli atteggiamenti dell’amministrazione americana nei confronti dell’Iran o riguardo ai dazi imposti sull’acciaio.

 

 

Ma il Regno Unito ha esportato oltre Atlantico beni per un ammontare pari a un sesto di quello che «piazza» nei paesi dell’Unione europea e, allo stesso modo, se si prendono in esame gli investimenti diretti esteri risulta anche qui la sproporzione, poiché il 40% provengono dall’Ue, in una cifra più che doppia di quelli americani. La conclusione dovrebbe quindi essere che Londra commetterebbe un azzardo se decidesse di sostituire il mercato interno europeo con quello statunitense. A fronte di una minore crescita interna britannica si verificherà una flessione delle importazioni dall’estero che si rifletterà negativamente anche sull’economia italiana, danneggiate ulteriormente dalla possibile imposizione da parte di Londra di gravose tariffe sui prodotti esteri.

 

 

Altre difficoltà alle imprese italiane potrebbero derivare dalle ripercussioni sulle capacità del sistema finanziario di sostenere l’economia produttiva nella fase immediatamente successiva all’uscita del regno Unito dall’Unione europea – il 70% circa del debito europeo viene infatti gestito da banche con sede a Londra -, dato che è lì che molte di esse si rivolgono per l’emissione di titoli azionari od obbligazionari necessari al finanziamento delle proprie attività. Infine, vanno considerati gli effetti economici della Brexit sugli investimenti diretti esteri nel Regno Unito, che potrebbero subire un complessivo ridimensionamento a causa del trasferimento di sedi e impianti da parte di quelle imprese danneggiate dalle condizioni contestuali divenute sfavorevoli a causa della riduzione dei volumi di mercato praticabili nel Paese, dal quale diverrebbe anche impossibile accedere al mercato continentale europeo dopo l’uscita da esso della Gran Bretagna. Un quadro sconfortante dominato dall’incertezza e dallo scandire del tempo.

 

 

In assenza di una soluzione positiva del negoziato, cioè di un qualunque scenario che riceva l’approvazione dal parlamento di Londra, il Regno Unito uscirà dall’Unione Europea il giorno 29 marzo 2019. Entro il 13 febbraio la premier Theresa May si sarebbe dovuta ripresentare alla Camera dei Comuni con i mano almeno uno straccio di risultato del suo infinito supplemento negoziale. L’esito è stato quello previsto: negativo. Quindi rimane davvero poco tempo per trovare una soluzione alternativa alla questione. A quella fatidica data dovrebbe scattare un regime transitorio la cui durata prevista è fino al 2020, il cosiddetto Withdrawal Agreement. Però si tratta di una transizione che potrà avviarsi soltanto se nel frattempo sarà stato raggiunto un accordo tra Londra e Bruxelles, cioè solo se il “deal” verrà approvato, poiché esso è parte integrante del complesso delle regole che disciplineranno la separazione. Il “deal” non è ancora stato approvato da Westminster, quindi si aprono alcuni diversi scenari: lo scenario peggiore (il cosiddetto Crash Out), quello che cercherebbe di recuperare parti dell’accordo con l’Ue al fine di rendere meno traumatica possibile l’uscita britannica e, infine, quella della revoca unilaterale dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, attraverso la quale il governo May revocherebbe la Brexit, ma quest’ultima ipotesi resta sub judicis, in quanto su di essa si attende la pronuncia della Corte di Giustizia europea.

 

 

Una delle tre ipotesi esplorabili contemplate nella possibile rinegoziazione con Bruxelles, quella che farebbe permanere i britannici nell’unione doganale, incontra però tutta una serie di ostacoli, non ultimo quello del libero movimento delle persone attraverso i confini, un aspetto sul quale la May ha sempre assunto una posizione intransigente. Al riguardo l’Unione europea nell’eventualità di una hard Brexit ha approntato delle misure di emergenza da applicare nel caso si rendesse necessario.

 

 

Si tratta sostanzialmente di tre provvedimenti: la garanzia degli studenti che beneficeranno dei programmi Erasmus alla data della separazione, la tutela dei cittadini comunitari in pensione che in passato hanno lavorato nel Regno Unito e la garanzia della copertura finanziaria nel bilancio 2019 fornita ai programmi in atto. Oltre tre milioni di cittadini provenienti da Paesi membri dell’Unione europea vivono attualmente nel territorio del regno Unito, di questi gli italiani regolarmente registrati sono 300.000, mentre i britannici nella Ue sono circa un milione; 14.000 sono invece i giovani che studiano oltre Manica e 7.000 studenti britannici frequentano corsi nei Paesi Ue, a tutti questi studenti verranno garantite fino al completamento dei corsi le borse di studio Erasmus precedentemente ottenute.

 

 

Ovviamente la Brexit rifletterà i suoi effetti sui rapporti economici in essere in Europa, in particolare nel caso si concretizzasse l’ipotesi peggiore, quella del “No Deal”. In questa fase di stallo e di incertezza gli economisti hanno delineato alcuni scenari futuri improntati al pessimismo, mentre ansia e preoccupazione avrebbe pervaso gli operatori economici e finanziari che attendono gli sviluppi degli eventi.

 

 

La situazione è oggettivamente difficile e, conseguentemente, le imprese commerciali e la City hanno elaborato dei piani di contingenza prefigurando strategie e scenari alternativi. Il tempo incalza e il timing viene dettato dalla data formale di uscita del Regno Unito dalla Ue, le ore 11:00 del 29 marzo 2019. Uno dei tanti problemi da risolvere sarebbe poi quello della creazione altrove, e in termini temporali estremamente ristretti, di un ecosistema finanziario come quello oggi esistente e operante nella City, una piazza finanziaria alternativa quella londinese. Un’impresa davvero difficile, perché all’ombra della cattedrale di Saint Paul si sono sedimentate tutte le competenze umane e le strumentazioni tecnologiche indispensabili alla gestione della finanza moderna. Senza contare poi dell’ottimale cornice legale posta a regolamentazione dello svolgimento delle transazioni. Londra è la più importante dopo Wall Street, di risulta tutti gli asset denominati in pound potrebbero perdere parte del loro valore.

 

 

Nel mondo della finanza «i topi si apprestano ad abbandonare la nave che affonda»: City Group starebbe trasferendo la sua sede a Parigi, mentre JP Morgan e Goldmann Sachs hanno raddoppiato i propri organici nelle loro sedi di Milano. Tuttavia nella città lombarda non dovrebbero farsi troppe illusioni, poiché con ogni probabilità essa non diventerà il rifugio per i grandi gruppi finanziari in esodo da Londra. In questo momento il “rischio paese” in Italia è troppo elevato per scelte del genere, principalmente a causa degli sviluppi politici interni, dunque, in molti guardano con favore alla capitale francese, malgrado sia più costosa.

 

 

La Brexit si colloca in uno dei momenti peggiori attraversati dall’economia europea, caratterizzato da un secco rallentamento. Si registrano le prime significative riduzioni del Pil sia in Germania che in Italia, paese, quest’ultimo, addirittura sull’orlo di una recessione. Il pericolo è che dall’oggi al domani nel Regno Unito venga a cessare la validità delle regole comunitarie fino a quel momento in vigore. Un’uscita senza accordi sarebbe traumatica poiché si scaricherebbe direttamente su un’eurozona fortemente vulnerabile. Infatti, la politica monetaria non convenzionale della Banca centrale europea, che ha generato un’espansione economica, sta attraversando la fase terminale del suo lungo ciclo, questo a fronte dell’assenza – almeno al momento – di strumenti di natura fiscale da utilizzare in chiave compensativa.

 

 

L’Europa si vedrà costretta ad assumere misure di emergenza nel caso di un “No Deal”. Ma viene ipotizzato anche un possibile effetto a catena reso possibile dai saldi legami di interdipendenza dell’economia mondiale, che attraversa due contestuali criticità: la situazione cinese – difficilmente fronteggiabile da Pechino attraverso l’utilizzazione dei classici strumenti dell’espansione del credito e della riduzione fiscale già sperimentati nel recente passato – e la forte caduta della borsa negli Usa, con la riforma fiscale del presidente Trump utilizzata finora per sostenere (anche artificialmente) la ripresa, uno shock che è previsto prodursi nonostante l’intervento in funzione mitigatrice della Federal Reserve. La Brexit impatterebbe quindi su una tendenza alla stagnazione dove si sommerebbero il rallentamento cinese, la caduta di Wall Street e il crollo britannico.

 

 

Al riguardo, la stessa Bank of England per il 2019 vede nero, le sue stime danno una caduta in un anno del Pil britannico all’8% in caso di hard Brexit. Uno shock iniziale che si assocerebbe a una pesante svalutazione della sterlina, si prevede del 25%, e a un conseguente incremento dell’inflazione. Si tratterebbe di effetti superiori a quelli registrati a seguito della crisi del 2008, quando il Pil britannico crollò del 6%, cioè un qualcosa di paragonabile soltanto alla crisi indotta dallo shock petrolifero del lontano 1973. Negli scenari meno catastrofici la situazione delineata si configurerebbe comunque grave, permanendo marcata la flessione del Pil, l’aumento dell’inflazione, la svalutazione della moneta nazionale e l’inevitabile incremento del tasso di disoccupazione.

 

 

Non va poi dimenticato che la Brexit, così come si sta perfezionando, sarà destinata ad alimentare ulteriori problematiche di natura sia politica che di sicurezza nell’Ulster. Il backstop – dal quale il governo May vorrebbe uscire unilateralmente e sul quale si gioca la sua traballante coalizione conservatrice -, se superato porterà al ristabilimento delle dogane tra il Regno Unito e l’Eire, con tutte le conseguenze del caso, a cominciare dalla contea di Armagh. A questo punto Londra cercherà di rafforzare le proprie relazioni con Washington allo scopo di assumerne il ruolo di partner fondamentale in termini commerciali, anche a scapito delle relazioni Usa-Ue. Tuttavia, anche questo sarà un obiettivo non facile da conseguire, dato che la politica protezionistica di Trump ne costituirà un ostacolo.

 

 

Certamente, quella tra Londra e Washington è una relazione storicamente privilegiata, seppure negli ultimi tempi siano stati registrati degli scollamenti dovuti agli atteggiamenti dell’amministrazione americana nei confronti dell’Iran o riguardo ai dazi imposti sull’acciaio. Ma il Regno Unito ha esportato oltre Atlantico beni per un ammontare pari a un sesto di quello che «piazza» nei paesi dell’Unione europea e, allo stesso modo, se si prendono in esame gli investimenti diretti esteri risulta anche qui la sproporzione, poiché il 40% provengono dall’Ue, in una cifra più che doppia di quelli americani.

 

 

La conclusione dovrebbe quindi essere che Londra commetterebbe un azzardo se decidesse di sostituire il mercato interno europeo con quello statunitense. A fronte di una minore crescita interna britannica si verificherà una flessione delle importazioni dall’estero che si rifletterà negativamente anche sull’economia italiana, danneggiate ulteriormente dalla possibile imposizione da parte di Londra di gravose tariffe sui prodotti esteri.

 

 

Altre difficoltà alle imprese italiane potrebbero poi derivare dalle ripercussioni sulle capacità del sistema finanziario di sostenere l’economia produttiva nella fase immediatamente successiva all’uscita del regno Unito dall’Unione europea – il 70% circa del debito europeo viene infatti gestito da banche con sede a Londra -, dato che è lì che molte di esse si rivolgono per l’emissione di titoli azionari od obbligazionari necessari al finanziamento delle proprie attività.

 

 

Infine, vanno considerati gli effetti economici della Brexit sugli investimenti diretti esteri nel Regno Unito, che potrebbero subire un complessivo ridimensionamento a causa del trasferimento di sedi e impianti da parte di quelle imprese danneggiate dalle condizioni contestuali divenute sfavorevoli a causa della riduzione dei volumi di mercato praticabili nel Paese, dal quale diverrebbe anche impossibile accedere al mercato continentale europeo dopo l’uscita da esso della Gran Bretagna. Un quadro sconfortante dominato dall’incertezza e dallo scandire del tempo.

Condividi: