DOSSIER Le guerre di Mosca

DOCUMENTI- LE GUERRE DI MOSCA Georgia, estate 2008 La diffusa instabilità nella regione del Caucaso. Dalla fine del confronto bipolare la regione del Caucaso è stata sempre più interessata da un livello di instabilità crescente, direttamente proporzionale all’importanza strategica dei territori attraverso i quali transitavano o sarebbero dovute transitare le condotte energetiche che alimentano di gas e petrolio l’Europa. Ma non soltanto questo, in quanto l’arco delle crisi aveva – e ha tuttora – una estensione tale da comprendere anche l’insieme delle piccole repubbliche autonome e degli stati sorti dalla dissoluzione dell’Unione sovietica legandoli tutti tra loro in un confronto titanico derivante da disegni strategici di vasto respiro. Infatti, nelle aspettative di Mosca il Caucaso dovrebbe divenire il grande collettore del gas russo verso il sud dell’Europa attraverso il Mar Nero. Una ragione che aiuta a comprendere la determinazione del Cremlino e la sua grave decisione di intervenire militarmente in Georgia. I giganti energetici russi hanno bisogno di pompare i flussi di gas estratto dal loro bacino della regione del Volga-Urali nella Russia occidentale e di quelli provenienti dalla regione caspica di Astrakhan e dalla Siberia occidentale; alle quantità di gas russo si andrebbero poi aggiunte anche quelle estratte dai giacimenti dell’asia centrale, in particolare del Turkmenistan. Lo scontro, sia di dimensione globale che strettamente regionale, verteva (e tuttora verte) principalmente sulla dimensione del controllo delle materie prime energetiche da parte della Russia, in alcuni casi sia dalla loro fase di estrazione, nella totalità in quella del transito verso il ricco ed energivoro mercato europeo. Per gli statunitensi e i loro alleati locali (Ucraina, Polonia e Georgia in primo luogo) ridurre l’influenza di Mosca in questo settore attraverso la sottrazione del suo sostanziale monopolio sull’esportazione di gas e petrolio avrebbe portato anche al conseguimento del risultato del suo ridimensionamento come potenza. Numerose crisi rimaste “congelate” per anni hanno così conosciuto fasi di recrudescenza. Al momento dell’esplosione del conflitto che tra Georgia e Russia nel territorio dell’Inguscezia, una delle repubbliche più povere della Federazione russa, erano presenti circa 300.000 rifugiati dalla vicina Cecenia, da dove il perdurante conflitto in atto da anni continuava a influenzare anche la regione confinante a causa del terrorismo e dei numerosi omicidi. Nel 1992 l’Inguscezia era entrata in guerra contro l’Ossezia del Nord, un’altra repubblica autonoma della Federazione russa, a maggioranza cristiana in forte tensione con la componente musulmana. L’Ossezia del Nord, che ospitava una delle maggiori basi dell’Armata rossa della regione, tra le sue minoranze, oltre a un 30% di russi, annoverava anche un 5% di ingusceti. L’Ossezia del Sud, invece – come meglio si potrà vedere in seguito – dal 1989 era impegnata in un duro conflitto con la Georgia; nel 1992 la popolazione locale si espresse per l’indipendenza della regione da Tbilisi e per una successiva unione con l’Ossezia del Nord, cioè con Mosca. La maggioranza dei sud osseti era in possesso del passaporto russo e, di fatto, l’economia legale era integrata con quella della Russia. Anche un’altra regione della Georgia, l’Abkhazia, aveva proclamato la propria indipendenza dopo un anno di guerra combattuto contro le forze di Tbilisi e, fino all’intervento militare di Mosca dell’agosto 2008 la situazione di non belligeranza veniva mantenuta a stento dalle unità militari dell’Armata rossa presenti sul suo territorio. Il Daghestan, maggiore repubblica della Federazione russa a maggioranza musulmana, dal 1999 era divenuta teatro delle incursioni della guerriglia cecena e, inoltre, sul suo territorio venivano registrati numerosi attacchi contro le autorità costituite e le forze di polizia. La Cecenia – della quale in questa sede si farà soltanto un breve cenno rinviando a uno specifico approfondimento – si era dichiarata indipendente da Mosca nel 1991; nel 1994 aveva subito l’attacco militare russo, che in ventuno mesi di conflitto aveva provocato oltre 50.000 vittime; nel 1999 le truppe di Putin avevano nuovamente invaso il suo territorio iniziando a effettuare una serie di operazioni militari contro la guerriglia jihadista e il terrorismo. Infine, il Nagorno-Karabakh, enclave a maggioranza armena (cristiana) dell’Azerbaigian (paese a maggioranza musulmana), a partire dai primi anni Novanta si trovava in conflitto con quest’ultimo paese; a seguito dell’applicazione del cessate il fuoco dal 1994 la zona si trova sotto il controllo degli armeni, seppure si fossero continuati a registrare con continuità scontri a fuoco con le forze armate azere. Georgia: un conflitto “congelato” e l’annessione occulta russa. Negli ultimi anni del “congelamento” del conflitto nelle regioni secessioniste georgiane il Cremlino non ha mancato di approfittarne allo scopo di influire sulla situazione interna determinatasi nella piccola ex repubblica sovietica del Caucaso. Si è parlato di una sorta di annessione occulta da parte di Mosca, che ha imposto un embargo alle importazioni russe di merci dalla Georgia e concedendo il passaporto russo ai cittadini osseti e abkhazi, facendo tutto questo senza mostrare l’interesse per un’annessione vera e propria, riconoscendo al contrario, almeno sul pino formale, la piena sovranità di Tbilisi sulle sue due regioni separatiste. Per il Cremlino la Georgia riveste una fondamentale importanza strategica e per questa ragione si è sempre dichiarato fortemente contrario a forme di confederazione dei popoli del Caucaso. La Georgia rappresenta uno sbocco sul Mar Nero, divenuto ancora più importante a seguito dell’indipendenza dell’Ucraina, che per la Russia ha comportato la perdita del controllo del porto di Sebastopoli. Inoltre la Georgia si trova in prossimità delle repubbliche caucasiche musulmane, in più confina direttamente con la Turchia e il suo territorio viene attraversato da importanti condotte energetiche che originano nel bacino del Caspio. Georgia, il “pivotal” state degli Usa nel Caucaso. Nel perseguimento delle loro politiche di egemonia globale gli Usa hanno sempre fatto riferimento a stati loro “clienti”, i cosiddetti pivotal state, presenti in ogni regione del mondo. Questi pivotal state, scelti da Washington sulla base delle capacità di controllo geopolitico sulla regione di appartenenza, risultano funzionali all’influenza dei paesi loro vicini nel senso di un indirizzo politico ed economico di questi ultimi che non sia contrario agli interessi strategici americani. Alla fine del secolo scorso, nello spazio transcaucasico il ruolo di pivotal state degli Usa venne conteso da Georgia e Azerbaigian. In realtà, Mikhail Saakashvili, presidente georgiano divenuto il fondamentale referente di Washington nella regione, non era sempre stato un avversario di Mosca, infatti, nel passato era stato un personaggio le cui politiche erano risultate gradite al Cremlino. Nipote di un colonnello del KGB, Saakashvili si era formato frequentando i corsi dell’Istituto di Studi Internazionali di Mosca, cioè della scuola di diplomazia controllata dalla Lubianka, ricoprendo in seguito una carica ministeriale in Georgia nell’esecutivo filorusso di Edvard Shevardnadze. Dopo lo smembramento dell’Urss l’ex ministro degli esteri sovietico dell’era Gorbaciov era divenuto il primo ministro di un governo imposto a Tbilisi da Mosca e in quella veste aveva fatto numerose concessioni al Cremlino, tra le quali l’accettazione della presenza in territorio georgiano di unità dell’Armata rossa, ufficialmente ridislocate in qualità di forze di pace. Saakashvili rispose a tal punto alle esigenze del Cremlino da divenire uno degli interlocutori del ministro degli esteri russo Ivanov nell’imminenza della cosiddetta Rivoluzione delle rose, quando data ormai per certa la destituzione di Shevardnadze Mosca si rese artefice di una mediazione tra lo stesso premier uscente e, appunto, Saakashvili allo scopo di favorire un processo di transizione che non comportasse il ricorso all’uso della forza da parte delle autorità statali di Tbilisi e che fosse il meno traumatico possibile per Mosca. In seguito, una volta che Saakashvili ebbe assunto il potere, per il tramite del ministro dell’economia di Tbilisi, Mosca intervenne nell’economia georgiana favorendo il rilascio di una serie di concessioni governative a favore di imprese russe attive nei settori agricolo ed energetico. Per l’intera durata della presidenza Elt’cin (Eltsin), Saakashvili risultò perfettamente funzionale alla visione geopolitica del tempo, basata sul principio della condivisione degli interessi russi e americani in quella che era stata la “fascia sud” dell’Unione sovietica, cioè le regioni del Caucaso e dell’Asia centrale. Una funzionalità destinata però a cessare con l’insediamento al Cremlino di Vladimir Putin, che fina da subito improntò la sua azione di governo alla presa di distanze dal quadro internazionale preesistente e alla concomitante ricerca del ripristino della sovranità di Mosca sul suo “estero vicino”. Dunque, con l’uscita della Russia dall’Occidente si sbiadì la stretta referenzialità del presidente georgiano Saakashvili col Cremlino. Di pari passo all’irrigidimento delle relazioni bilaterali tra Mosca e Tbilisi iniziarono a essere applicate misure di ritorsioni nei confronti della piccola ex repubblica sovietica affacciata sul Mar Nero: Mosca tagliò i flussi energetici che rifornivano Tbilisi attraverso il gasdotto caucasico, bloccò le importazioni di vino georgiano e negò il rinnovo del permesso di lavoro precedentemente concesso a migliaia di cittadini georgiani emigrati in Russia, inoltre incrementò il sostegno sia economico che militare alle entità separatiste filorusse di Abkhazia e Ossezia del Sud. In seguito, al fine di consolidare il proprio potere e realizzare l’annunciato programma di modernizzazione del paese, Saakashvili non ha esitato a impiegare le maniere forti, compromettendo così i residuali deboli spiragli di dialogo con quelle due regioni secessioniste filorusse. L’immagine del presidente georgiano subì inoltre un duro colpo nell’autunno del 2007 in conseguenza dell’esplosione dello scandalo provocato dalla denuncia sporta nei confronti del presidente dall’ex ministro della difesa Iraki Okruashvili, personaggio fatto immediatamente arrestare dalle forze di sicurezza di Tbilisi agli ordini di Saakashvili col pretesto di un coinvolgimento in una evasione fiscale e, con ogni probabilità, torturato in carcere affinché ritrattasse le sue accuse. Il controverso caso Okruashvili prestò il fianco agli avversari di Saakashvili, in particolare al potente magnate Badri Patarkazishvili, che contribuì all’orchestrazione di una serie di dure manifestazioni di protesta nel paese, liquidate successivamente dal giovane e spregiudicato presidente mediante la proclamazione dello stato di emergenza in Georgia, che permise alla polizia di effettuare arresti indiscriminati, brutali repressioni del dissenso e la chiusura di autorità delle emittenti radiotelevisive dell’opposizione. Una stretta sulle fondamentali libertà civili, come il diritto dei cittadini all’informazione, che in Georgia venne limitato dal controllo dello stato sulle televisioni e, indirettamente, dal controllo da parte dell’establishment che esprimeva il presidente Saakashvili dei principali organi di stampa. Il riarmo di Tbilisi in vista di un conflitto con la Russia e gli aiuti americani. La strategia militare nazionale georgiana è il risultato della Strategic Review avviata da Tbilisi nel 2004 con l’aiuto degli Usa e di altri partner. Gli obiettivi fondamentali perseguiti nel corso della presidenza di Mikhail Saakashvili sono stati quelli della restaurazione dell’integrità nazionale della Georgia unitamente all’ingresso come membro nella NATO e nell’Unione europea. Nel tempo, la persistente presenza di elementi jihadisti nel settentrione del paese e la contemporanea infiltrazione di guerriglieri e di terroristi ceceni nella zona della gola di Pankisi hanno ufficialmente giustificato l’invio, deliberato dal Pentagono nel 2002, di circa duecento istruttori militari americani con il compito di affiancare e assistere il governo di Tbilisi nello specifico settore. Si trattava della missione addestrativa nota come Georgian Train and Equip Program (GTEP), successivamente evolutasi nel più complesso Sustainability and Stability Operation Program (SSOP), che ha previsto l’organizzazione e l’addestramento di quattro battaglioni dell’esercito georgiano. La pianificazione strategica di Tbilisi identificava nella Russia la principale minaccia incombente sul paese e, conseguentemente, lo strumento militare nazionale si faceva carico dei due obiettivi fondamentali di una efficace autodifesa e dello sviluppo delle capacità richieste da una prevista, futura, integrazione nella NATO sulla base delle condizioni precedentemente poste dall’Individual Partnership Action Plan (IPAP), concordato da Tbilisi con l’Alleanza atlantica il 29 ottobre 2004. A quel tempo le autorità militari georgiane non ritenevano come praticabile un ritiro delle loro forze nell’eventualità di un’aggressione nemica del territorio nazionale, le ragioni alla base di questo orientamento risiedevano nella geografia del piccolo paese caucasico, che non offriva la sufficiente profondità strategica a un riposizionamento del proprio dispositivo in funzione di una difesa arretrata maggiormente efficacia; esistevano inoltre altri impedimenti, costituiti dalla dispersione dei centri urbani georgiani e dalla dislocazione dei siti produttivi nel paese. Il risultato fu che, nell’eventualità di ostilità con la Russia, Tbilisi si sarebbe trovata a contendere al nemico l’intera superficie del territorio nazionale georgiano. La consapevolezza riguardo alla schiacciante superiorità del potenziale nemico portavano i vertici della difesa georgiana a prevedere anche forme di guerriglia nel complesso delle attività di resistenza all’invasore, puntando quindi sul prolungamento della durata della guerra perseguendo l’evidente risultato della successiva (ma non eccessivamente tardiva) mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale e, ovviamente, degli alleati occidentali In primo luogo degli statunitensi, ma non solo, anche dei paesi che facevano parte della cosiddetta Comunità della scelta democratica, un consesso stabilito il 2 dicembre del 2005 che, oltre alla Georgia, annoverava l’Ucraina, la Romania, le repubbliche baltiche, la Moldavia e la ex Repubblica jugoslava di Macedonia (FYROM). In sostanza, a Tbilisi si perseguiva lo sforzo nel senso di una trasformazione dalla forma della difesa territoriale a quella della difesa collettiva, un risultato che veniva ritenuto di natura strutturale e che avrebbe attenuato il livello di precarietà in termini di sicurezza della Georgia. La NATO dunque, una prospettiva dai contorni salvifici che dal momento dell’avvento al potere di Saakashvili divenne il paradigma della politica estera di Tbilisi: entrare nell’Alleanza atlantica nel minore tempo possibile al fine di garantirsi un’assicurazione sulla vita per il lungo periodo. In ogni caso prima del 2009, anno nel quale erano previste le elezioni presidenziali in Georgia. Da queste premesse scaturì il pressing diplomatico teso all’ottenimento di un Membership Action Plan (MAP), culminato con il forum sulla sicurezza di Tbilisi che ebbe luogo dal 16 al 18 febbraio del 2006. Il MAP, fortemente voluto dall’amministrazione statunitense guidata dal repubblicano neocon George Walker Bush, qualora sottoscritta avrebbe impegnato i georgiani al perfezionamento delle loro istituzioni democratiche, del sistema giudiziario, di quello economico e, come accennato, dello strumento militare. Tutto questo a fronte di costi estremamente sostenuti per un paese del livello della Georgia, che si sarebbe dovuta fare carico delle spese del passaggio a forze armate professionali, che seppure ridotte negli organici, avrebbero inquadrato effettivi specializzati, senza parlare poi degli onerosi investimenti in nuovi sistemi d’arma necessari all’adeguamento agli standard della NATO. Attraverso efficaci strategie comunicative e attività di lobbying, Saakashvili non mancò di rimarcare ufficialmente e in modo reiterato tutte le convenienze e le opportunità per l’Occidente conseguenti a un ingresso georgiano nell’Alleanza atlantica: innanzitutto il completo consolidamento della cooperazione già avviata con gli Usa e la Turchia, quest’ultima definita partner strategico; quindi la diffusione dell’immagine di una Georgia contributrice della sicurezza globale attraverso la fornitura di contingenti di truppe alle maggiori missioni di stabilizzazione post-conflitto che vedevano in quel momento impegnati i paesi occidentali; infine, il varo di misure di riforma concordate con l’Alleanza atlantica da attuare sul piano interno in ottemperanza al già citato IPAP. Il governo di Tbilisi dovette assumere il reale controllo politico dello strumento militare nazionale attraverso una catena di comando sulle forze armate rinvenente il proprio vertice nel presidente della repubblica e nel ministro della difesa, mentre contestualmente venivano inoltre sciolte le unità paramilitari dipendenti dal ministero dell’interno. Gli oltre 21.000 uomini in servizio con le forze armate di Tbilisi risultavano inquadrati nelle unità dell’esercito (quattro brigate di fanteria, una di artiglieria, una di forze speciali, una antiaerea più quattro battaglioni specializzati e di supporto), inoltre, nell’ambito della componente terrestre andava annoverata anche la Guardia nazionale, formata da personale volontario che, oltre allo svolgimento di altre funzioni (mobilitazione del personale, addestramento dei riservisti richiamati in servizio e intervento nel caso di calamità naturali) trovava impiego operativo sui fronti osseto e abkhazo. La marina georgiana era una forza di ridotte dimensioni e priva di capacità operative d’altura che veniva impiegata esclusivamente per la sorveglianza costiera, leggermente diverso il caso dell’aeronautica, che con un organico di circa un migliaio di uomini svolgeva funzioni di supporto alla componente operativa terrestre. L’esercito georgiano (in particolare le forze speciali e le altre unità di punta), partecipando alla missione in Iraq avevano avuto l’opportunità di migliorare le proprie capacità incrementando al contempo il livello di interoperabilità con i loro alleati americani. Nell’Iraq del dopo Saddam, oltre al controllo del territorio, i militari di Tbilisi ricevettero infatti specifici addestramenti da parte di consiglieri militari statunitensi e israeliani. Per il piccolo paese caucasico quella missione non era stato un impegno indifferente, in quanto la partecipazione alle operazioni di stabilizzazione post-conflitto aveva conosciuto una fase incrementale che aveva portato le dimensioni del contingente inviato da Tbilisi dagli iniziali 160 uomini a circa 2.000 (il terzo contingente nazionale dopo quello Usa e quello britannico), una progressione verso il gigantismo dettata dalle necessità di Washington di compensare il ritiro di altri contingenti minori della coalizione. In precedenza, nella sua pervicace aspirazione a entrare nella NATO, il governo georgiano aveva inviato all’estero altri suoi contingenti militari facendoli operare nell’ambito delle missioni multinazionali in Kosovo e in Afghanistan. Il training dei militari di Tbilisi era poi proseguito anche in Georgia e con esso le forniture di sistemi d’arma in vista di un conflitto nell’Ossezia del Sud, vento bellico che in quel momento era in fase di preparazione. Le compagnie private israeliane Global CST e Defense Shield avrebbero continuato a svolgere le loro attività di supporto alle forze armate di Saakashvili fino all’inizio del conflitto, operando da alcune basi militari nel paese caucasico; i contractors israeliani vennero però prontamente evacuati dalla Georgia mediante un ponte aereo prima che quelle stesse basi fossero conquistate dai russi nel corso della loro travolgente offensiva. (¹) (²) Nel marzo del 2006, dunque a pochi mesi dal breve conflitto che avrebbe insanguinato il paese caucasico, la NATO valutò positivamente lo stato di avanzamento del programma di avvicinamento agli standard atlantici perseguito dalle forze armate georgiane. Un traguardo conseguito non certo casualmente, dato che negli anni immediatamente precedenti Tbilisi aveva ricevuto aiuti nono indifferenti da statunitensi, ucraini e israeliani, che, oltre a cedere ingenti quantità di armamenti, avevano inciso sul suo profilo strategico orientandone l’apparato militare verso una dottrina di natura offensiva che presumeva il possesso delle capacità necessarie al recupero del controllo dei territori delle regioni di Abkhazia e Ossezia del Sud. Tale dottrina, almeno apparentemente, non contemplava però la possibilità di una immediata risposta militare russa su vasta scala. Un errore che si sarebbe dimostrato fatale, dato che le forze georgiane – nonostante il prolungato periodo di addestramento e standardizzazione in buona parte finanziato dagli Usa, il supporto di forze speciali americane e contractors e, financo, delle informazioni fornite dall’intelligence di Washington e Tel Aviv – all’atto pratico non poterono contare ancora sull’intervento rapido degli stessi americani o della NATO, evidenziando per altro deficienze nella mobilitazione del personale e non brillanti capacità operative. Tbilisi e la NATO. Il continuo allargamento della NATO a Oriente e il dispiegamento dello scudo antimissile statunitense in Europa centrale sono stati due importanti fattori che in quegli anni contribuirono in maniera determinante all’irrigidimento del confronto tra la Russia di Putin e l’Occidente. Qualora Ucraina e Georgia avessero fatto ingresso nell’Alleanza atlantica per Mosca il significato sarebbe stato quello di una presenza militare americana in un’area per lei estremamente sensibile e sulla quale rivendicava (e rivendica tuttora) interessi legittimi di natura fondamentale. Durante la sua visita ufficiale compiuta a Washington nel marzo del 2008, il presidente georgiano Saakashvili ricevette da Bush l’assicurazione che l’amministrazione Usa si sarebbe spesa facendo tutto il possibile per favorire un ingresso immediato di Tbilisi nella NATO. A tale scopo, una strada percorribile sarebbe stata quella dell’esercizio di adeguate pressioni sugli altri paesi occidentali in vista del previsto svolgimento del vertice alleato che avrebbe avuto luogo a Bucarest tra il 2 e il 4 aprile seguenti. Però, in quell’occasione l’inquilino della casa bianca non ottenne concreti risultati a causa delle resistenze di francesi e tedeschi, intenzionati a evitare un eccessivo incremento del livello di tensione con la Russia. Dunque, seppure favorevoli a un impegno di massima relativo a un futuro ingresso di Tbilisi e di Kiev nella NATO, gli alleati degli Usa dichiararono ufficialmente che nel dicembre successivo le aspirazioni delle due ex repubbliche sovietiche avrebbero iniziato a coronarsi attraverso la loro partecipazione al già citato MAP, programma finalizzato alla preparazione all’adesione dei futuri membri dell’organizzazione. Una decisione che non poté che contrariare fortemente il Cremlino, da dove Vladimir Putin ammonì l’Occidente che la Russia avrebbe considerato la formazione di un potente blocco militare alle sue frontiere come una diretta minaccia alla propria sicurezza. Inseguito al vertice di Bucarest la cooperazione tra NATO e Georgia si andò ulteriormente rafforzando, al punto che il 20 giugno del 2008 (quindi soltanto sette settimane prima dell’attacco che sarebbe stato sferrato da Tbilisi all’Ossezia del Sud) il presidente Saakashvili visitò quartier generale dell’organizzazione a Bruxelles, dove incontrò il segretario generale Jaap De Hoop Scheffer. Il 23 luglio (cioè due settimane prima dell’attacco) due navi da guerra del NATO Maritime Group 2 al comando dell’ammiraglio italiano Giovanni Gumiero si recarono in visita al porto di Batumi, questo mentre in territorio georgiano aveva inizio l’esercitazione militare Immediate Response 2008, attività che vedeva impegnate, oltre alle unità dell’esercito e dell’aeronautica della Georgia, contingenti di truppe inviati il loco da Usa, Ucraina, Azerbaigian e Armenia. Fu in quell’occasione che circa mille militari americani vennero dislocati all’interno della base di Vaziani, a meno di cento chilometri di distanza dalla linea di confine con la Russia. Contestualmente, ma in Ucraina, aveva luogo l’annuale esercitazione militare Sea Breeze, nella quale venivano impegnate forze statunitensi e altri dieci paesi della NATO. Se a Bucarest l’amministrazione Bush non era riuscita a ottenere il pieno successo dell’ammissione di Georgia e Ucraina nell’organizzazione militare atlantica poteva comunque condizionarne le politiche, inducendo ancora i governi di questi due paesi ad allinearsi sulle proprie posizioni in campo internazionale coinvolgendoli altresì negli impegni derivanti dai conflitti scatenati in Afghanistan e Iraq. Impegni, questi, che avevano prodotto la conseguenza di mutare la natura dei bilanci nazionali di Tbilisi e Kiev gravandoli pesantemente dalle voci relative al riordino e all’esercizio dei loro strumenti militari. Il disegno perseguito da Washington appariva chiaro: dopo l’ingresso nella NATO di Albania e Croazia le candidature di Georgia e Ucraina risultavano funzionali alla strategia di sfondamento verso Oriente in direzione della Russia. Una strategia che delineava le nuove funzioni dell’Alleanza atlantica dopo la fine della guerra fredda, una strategia che non era più rispondente al contenimento dell’Urss – cioè la funzione originaria della NATO che ne aveva contraddistinto l’esistenza per decenni fino alla dissoluzione del nemico – che aveva conosciuto una revisione con l’attacco alla Jugoslavia di Milošević, primo passo verso il controllo dell’Asia centrale e delle risorse energetiche presenti nel suo sottosuolo. (³) Ma proprio in seguito a quel conflitto e alle conseguenti dure e provocatorie risposte di Mosca l’ipotesi dell’allargamento parve perdere realizzabilità. Ormai era stato innescato un confronto dagli aspri contorni che avrebbe conosciuto una fase incrementale della tensione tre anni dopo, quando l’amministrazione Bush favorì la caduta dei governi di Georgia e Ucraina sponsorizzando le cosiddette “rivoluzioni democratiche”, che a Tbilisi e Kiev portarono all’insediamento di leadership politiche disponibili all’isolamento di Mosca e, attraverso l’adesione all’organizzazione atlantica, allo spostamento verso Oriente della NATO fino a lambire direttamente i confini della Russia. Tutto questo avveniva mentre sullo sfondo Washington avviavano il loro progetto di scudo antimissile. Dopo l’imponente esercitazione Immediate Response 2008 ne venne prevista un’altra, denominata Georgian Express 2008, nell’ambito della quale elementi delle forze speciali britanniche addestrarono i militari dell’esercito georgiano al combattimento nelle aree urbanizzate. La guerra dell’estate 2008. Il conflitto scatenato il 7 agosto dal blitz georgiano contro l’Ossezia del Sud, abitata da 70.000 russi, provocò la tempestiva risposta di Mosca, che inviò nell’area la 58ª Armata, grande unità dislocata a copertura del delicato settore del Caucaso settentrionale che riversò su Ossezia del Sud e Abkhazia 10.000 soldati, una massa di manovra che andava ad aggiungersi ai 5.000 militari dell’Armata rossa già presenti in zona di operazioni e ai paramilitari russofoni delle due regioni secessioniste, stimati in alcune migliaia. I russi dapprima contrastarono le forze di Tbilisi attestatesi nei pressi della città di Tskhinvali, poi contrattaccarono lanciando diverse offensive simultanee e convergenti in direzione della città di Gori, nodo strategico dei collegamenti tra l’est e l’ovest della Georgia. Un attacco su due fronti che costrinse l’esercito di Saakashvili al ripiegamento onde evitare l’accerchiamento delle forze che erano state impegnate nell’attacco al capoluogo ossetino. Nella ritirata i georgiani abbandonarono sul terreno gran parte dei loro mezzi pesanti, carri armati e semoventi di artiglieria. Di fronte all’evolvere della situazione sul campo di battaglia il principale alleato di Tbilisi non si spinse oltre la dura critica nei confronti dell’operato di Mosca. Washington nella regione non disponeva che di limitate capacità e, quindi (ammesso in ogni caso che ciò corrispondesse realmente ai suoi disegni strategici) non si trovava nelle condizioni di poter intervenire militarmente al fianco di Tbilisi. Anche con il senno di poi risulta sempre difficile formulare delle ipotesi su casi controversi come questo e di risulta interrogarsi sui possibili avvertimenti pervenuti al giovane presidente georgiano e al suo entourage da settori dell’amministrazione e dell’intelligence statunitense, ammonimento che avrebbero preventivamente messo in guardia Saakashvili dal non tirare eccessivamente la già sfilacciata corda tesa con i russi. In quel particolare momento, body count alla mano, l’opinione pubblica americana avrebbe accettato davvero con estrema difficoltà nuovi interventi militari del loro paese all’estero, dato che le negative e dolorose esperienze dell’Iraq e dell’Afghanistan bruciavano ancora troppo. Resta il fatto che nei confronti della poderosa controffensiva russa a nulla valse il costoso programma di aggiornamento e potenziamento dello strumento militare perseguito in precedenza da Tbilisi con il sostegno americano. Uno sforzo che per la Georgia di Mikhail Saakashvili negli ultimi tre anni aveva comportato un sostanzioso incremento delle spese per il settore difesa. L’ultimo di questi stanziamenti, aggiuntivo al bilancio statale, era stato deliberato dal parlamento di Tbilisi meno di un mese prima dell’attacco, il 15 luglio, un ulteriore incremento delle spese militari finalizzato alla copertura finanziaria dell’aumento degli effettivi in forza all’esercito, da 29.000 uomini a 37.000, ai quali si aggiungevano circa 100.000 riservisti. Al momento dello scoppio delle ostilità la Georgia schierava 170 carri armati T-72, 350 tra mezzi corazzati e blindati, 200 lanciarazzi campali, 250 tra cannoni e obici semoventi, 600 mortai, missili antiaerei, armi anticarro, velivoli da attacco Sukhoi Su-25 (macchine modernizzate in Israele) ed elicotteri da combattimento Mil MI-24. Buona parte di questi sistemi d’arma, ad esempio i citati elicotteri Mi-24 ceduti da Kiev, erano stati forniti alla Georgia da paesi amici in passato appartenenti al Patto di Varsavia. Polacchi e ucraini avevano fornito anche elicotteri Mil MI-8 PzL-2, mentre dall’America pervenuti alcuni UH-1H. Sempre Varsavia aveva ceduto alle forze armate di Tbilisi 30 sistemi missilistici antiaerei Grom, coi quali nel corso dei combattimenti i georgiani riuscirono ad abbattere alcuni velivoli militari russi. Forniture di armamenti alla Georgia vennero effettuate anche da paesi appartenenti alla NATO: la Turchia cedette 100 blindati leggeri Cobra, la Repubblica ceca 24 obici semoventi Dana; gli statunitensi fornirono anche armi leggere e veicoli tattici, (materiali destinati prevalentemente alle unità di punta dell’esercito di Saakashvili, formate in buona parte da veterani che avevano operato nell’ambito delle operazioni in Iraq nelle province di Dyala e Wasit), mentre Israele contribuì sia all’aggiornamento dei sistemi di puntamento dei carri T-72 che alla fornitura di velivoli senza pilota da ricognizione Hermes 450 prodotti dalla Helbit. (⁴) Nonostante tutto questo potenziale Tbilisi evidenziò da subito i suoi punti deboli, principalmente nella componente aerea (mancanza di aerei da caccia) e in quella marittima (forze navali estremamente limitate). (⁵) Il blocco navale alla Georgia subì un allentamento soltanto in seguito all’intervento del governo ucraino, che minacciò di inibire alla Flotta russa del Mar Nero l’importante base navale di Sebastopoli. In seguito, un altro fattore deterrente al blocco russo sarebbe stato rappresentato dalla presenza delle unità della US Navy attraccate nei porti della Georgia con la giustificazione ufficiale della fornitura di aiuti umanitari alla popolazione civile. Nel corso delle operazioni condotte nei cieli georgiani Mosca perdette alcuni velivoli, ma riuscì a non dare tregua alle forze terrestri nemiche, infatti, grazie alla loro totale superiorità aerea i russi furono nelle condizioni di martellare le colonne corazzate georgiane. Al riguardo va considerato un altro interessante aspetto connesso con questo conflitto, quello relativo alla cyberwarfare, dato che nell’estate 2008 i russi utilizzarono le loro capacità nello specifico settore per distruggere la quasi totalità della piccola aviazione di Tbilisi. Mosca era in possesso di molte informazioni sul sistema di difesa aerea georgiana e sul sistema di trasmissione delle informazioni, per i suoi operatori è stato quindi possibile in sole ventiquattro ore infettare i computer del sistema di difesa nemico e su quelli aerotrasportati mediante worms. Nulla di particolarmente sofisticato, dato che i russi avevano la possibilità di penetrare il sistema informatico georgiano con diversi tipi di virus e lo hanno fatto in modo massiccio provocando due effetti principali sul nemico: la messa in uno stato di incapacità di comunicare e la distruzione dei programmi della rete. Non è stato particolarmente difficile od oneroso per i russi, essi hanno pienamente sfruttato il fattore sorpresa per portare a termine un’operazione ritenuta dagli esperti del settore sicuramente interessante ma non particolarmente significativa. Infatti, come accennato in precedenza, l’aviazione georgiana era una forza di limitate dimensioni e a questo andava aggiunto che i sistemi di sicurezza di Tbilisi si dimostrarono davvero deboli, quindi per i russi non è stato necessario agire su livelli di aggressione superiori per conseguire l’obiettivo della eliminazione dal campo di battaglia dell’aviazione del nemico. Un attacco portato con strumenti eccessivamente sofisticati espone chi lo pone in essere all’intelligence dell’avversario, evidenziando così il raggiungimento di livelli superiori di sofisticazione tecnologica. Anche nel caso della guerra in Georgia i russi hanno improntato la loro condotta alla prudenza, evitando di fornire dimostrazioni “gratuite” della loro piena capacità. Mar Nero, presenza militare Usa e NATO. Il primo volo statunitense recante aiuti umanitari alla Georgia atterrò il 13 agosto. Insieme ai medicinali da bordo del gigantesco C-17 venne sbarcato anche un team di specialisti inviato dal Pentagono a monitorare i movimenti della flotta russa nel Mar Nero allo scopo di prevenirne movimenti tesi al blocco o all’inibizione delle vie marittime di accesso al paese caucasico. Undici giorni dopo il cacciatorpediniere lanciamissili McFaul approdava nel porto di Batumi, si trattava la prima unità guerra della VI Flotta ufficialmente adibita al trasporto di aiuti umanitari nel quadro di una operazione diretta dal comando delle forze navali Usa in Europa con base a Napoli, in Italia. La USS McFaul era dotata di un sofisticato sistema radar e installava a bordo vari sistemi d’arma, inclusi i missili da crociera Tomahawk. (⁶) Tre giorni prima, il 21 agosto, allo scopo di effettuare un’esercitazione NATO della durata prevista di tre settimane, avevano iniziato a incrociare nel Mar Nero quattro navi militari di Usa, Polonia, Germania e Spagna. Si trattava del gruppo navale che costituiva la NATO Response Force (NRP), dispositivo a elevata prontezza operativa posta direttamente alle dipendenze di SHAPE (quartier generale delle forze alleate in Europa) e forte di 25.000 uomini in grado di essere proiettata entro cinque giorni in qualsiasi parte del mondo. In concreto, uno dei pochi atti di vero contrasto dell’iniziativa militare di Mosca nel Caucaso fu l’annuncio dell’imposizione di severe limitazioni nell’uso del porto di Sebastopoli alla flotta russa del Mar Nero. Un annuncio fatto dal presidente ucraino Viktor Yushenko su diretta induzione degli americani che generò una situazione estremamente delicata che presentava tutti i rischi di una rapida degenerazione qualora Kiev avesse realmente cercato di porre in essere tali limitazioni, che per altro erano state subito respinte da Mosca. Esse prevedevano che almeno settantadue ore prima del movimento di ogni unità russa le autorità ucraine ricevessero una lista dettagliata di tutti i sistemi d’arma installati sulla nave unitamente a una carta di immigrazione per ogni marinaio presente a bordo, inoltre, a fronte di tutto ciò, Kiev si sarebbe poi riservata la facoltà di negare l’ingresso o l’uscita ai membri dell’equipaggio. (⁷) Nella situazione di marcata instabilità politica vissuta allora dall’Ucraina la mossa antirussa di Yushenko rischiò di provocare una gravissima crisi all’interno del paese a causa di una prevedibile ribellione nelle province russofone, questo in concomitanza di un confronto di natura militare di più vaste dimensioni che avrebbe potuto innescarsi con Mosca. In questo perturbato quadro all’Armata rossa veniva attribuito anche lo schieramento in Ossezia dei potenti missili SS-21. La notizia venne diffusa da quotidiano “New York Times”, che citò delle proprie fonti del Pentagono rimaste anonime. La notizia venne prontamente smentita da Mosca, però successivamente rilanciata da ambienti dell’intelligence statunitense, che affermarono di essere in possesso dello schieramento dei sistemi missilistici russi avendole ricavate dalle immagini dei loro satelliti spia, che mantenevano continuamente puntati sul Caucaso i loro obiettivi allo scopo di sorvegliare l’area di crisi monitorando i movimenti russi. Oltre alla presenza degli SS-21 posizionati a nord di Tskhinvali, i satelliti americani rilevarono anche il rischieramento in Ossezia di batterie missilistiche antiaeree e l’approssimarsi ai confini della Georgia di unità aviotrasportate. A una osservazione e degli analisti lo schieramento di questo genere di armi da parte russa indusse a ritenere che Mosca fosse in procinto di scatenare nuove operazioni militari nella regione. Infatti, dall’Ossezia gli SS-21 erano in grado di comprendere nel loro raggio di azione sia la capitale Tbilisi che gran parte del resto del territorio della Georgia. Un’altra ipotesi formulata in quei giorni, che era poi quella più accreditata, ricondusse lo schieramento dei missili a una strategia russa di deterrenza e intimidazione mirante a scoraggiare l’eventuale sostegno di Usa ed Europa a Saakashvili nella sua avventura bellica e, obiettivo ancora più importante per Mosca, nella sua aspirazione a far entrare la Georgia nella NATO. (⁸) Sviluppi della situazione sul campo e cessate il fuoco. Nella loro inesorabile avanzata i reparti dell’Armata russa, oltre a travolgere il piccolo esercito di Tbilisi, si premurarono anche di costituirsi delle ulteriori misure di sicurezza. Nelle zone della Georgia occupate, in particolare a in ridosso dei confini abhkazi e osseti, le unità del genio appartenenti alla 58ª Armata distrussero sistematicamente le infrastrutture e i materiali abbandonati nella ritirata dalle forze di Saakashvili. La logica che guidò quest’azione distruttiva non fu riconducibile a un mero desiderio di vendetta nei confronti del nemico o alla volontà di inviare un duro ammonimento a Saakashvili (perlomeno non in maniera esclusiva), bensì nell’intenzione di rendere ai georgiani difficile, se non addirittura impossibile, una ripresa a breve termine dei loro progetti militari. La tabula rasa compiuta dai russi ridusse sensibilmente il potenziale militare georgiano, al punto che a Tbilisi sarebbe occorso molto tempo, volendolo, per ricostituire uno strumento bellico credibile e in condizioni di tornare a minacciare le milizie filorusse in Abkhazia e Ossezia del Sud. I militari di Putin demolirono quindi le basi dell’esercito georgiano delle città di Gori, Senaki, Zugdidi e Kutaisi, che in precedenza avevano ospitato tre delle quattro brigate di fanteria e la brigata di artiglieria. A Zugdidi e Kutaisi vennero distrutti anche gli aeroporti e le installazioni radar della difesa aerea. Mosca volle azzerare le capacità militari di Tbilisi colpendo la zona di massima concentrazione di caserme, depositi e infrastrutture logistiche. La base di Senaki (i cui ultimi reparti ancora attivi si trovavano in quel momento schierati attorno alla capitale a sua difesa) rappresentava in modo particolare il simbolo della modernizzazione dello strumento militare di Saakashvili reso possibile dal sostegno di Washington. La medesima sorte subì anche il complesso di infrastrutture presenti nella zona di Poti, dove dopo la requisizione della ridotta flotta militare georgiana, l’esercito e la fanteria di marina di Mosca distrussero caserme e radar portuali. Nel caso del ponte ferroviario di Kaspi, obiettivo classificabile come di natura civile, posto sulla linea che collega la capitale con la città di Gori, la messa fuori uso era finalizzata all’interruzione dei collegamenti interni della Georgia dividendo così il paese in due. Tornando a Poti e alla fascia costiera georgiana, va rilevato che in seguito all’attracco delle unità dell’US Navy nel porto di Batumi, alcune navi della Flotta russa del Mar Nero incrociarono al largo delle coste dell’Abkhazia mentre, contemporaneamente, i soldati dell’Armata russa allestirono una serie di posti di blocco all’interno dell’area portuale di Poti e nelle sue zone immediatamente adiacenti allo scopo di controllare i materiali (ufficialmente aiuti umanitari) scaricati da bordo delle navi americane e diretti nella capitale Tbilisi. I russi crearono inoltre una fascia di sicurezza larga alcuni chilometri attorno ai confini delle due regioni separatiste. L’accordo tra Russia e Georgia per un cessate il fuoco, raggiunto il 12 agosto grazie alla mediazione francese, per il piccolo paese caucasico, di fatto, costituì una resa. Però, Tbilisi non fu certo esente da responsabilità in ordine allo scatenamento di quel breve ma intenso conflitto, infatti, dai rapporti redatti dagli osservatori dell’OSCE (Organizzazione per la Cooperazione e la Sicurezza in Europa) che si trovavano nell’Ossezia del Sud il 7 agosto, data di inizio dell’offensiva contro i separatisti, emersero gravi elementi di colpa ascrivibili al governo del presidente Mikhail Saakashvili, oltre a cenni su attività ai limiti del crimine di guerra compiute dalle forze armate e dalla polizia georgiana. L’accordo che pose termine ai combattimenti in ogni caso non vincolò eccessivamente le truppe di Mosca, che, affiancate da milizie irregolari abkhaze e ossete nonché da formazioni composte da ceceni filorussi, che, oltre al porto di Poti e alla città di Gori (in questi due casi mediante sortite ripetute nel tempo), occuparono numerosi villaggi georgiani situati sulla fascia di confine spingendosi fino a una distanza di venticinque chilometri dalla capitale Tbilisi senza incontrare alcuna resistenza. Ragioni alla base dell’azzardo militare georgiano in Ossezia del Sud. Un’escalation sfuggita di mano, questa è una delle interpretazioni più accreditate delle possibili ragioni alla base dell’azzardo di Saakashvili in Ossezia del Sud, intenzionato a riunire alla Georgia la repubblica secessionista mediante una rapida ed efficace operazione militare condotta contro i ribelli filorussi osseti e abkhazi. Per Tbilisi la ricostruzione dell’integrità territoriale georgiana rispondeva a una serie di specifiche esigenze di carattere strategico, non ultima quella dell’allontanamento delle unità militari russe ancora stabilmente dislocate in Georgia, presenza che costituiva un ostacolo all’eventuale futura integrazione del paese nella NATO e nell’Unione Europea. A quel punto si sarebbe trattato soltanto di tradurre tali esigenze nelle forme di una opzione militare e a questo avrebbero pensato la ristretta cerchia di potere del presidente di concerto con i vertici della difesa del piccolo paese caucasico. Queste persone si resero favorevoli a una soluzione muscolare del problema osseto in forza del presunto – ma in seguito mancato – sostegno diretto statunitense al loro attacco. Su di loro potrebbero avere influito, determinandoli alla grave scelta, le strette relazioni intrattenute dal loro giovane presidente con l’entourage repubblicano degli Stati Uniti, in particolare col senatore McCain, che ha sempre considerato la Russia come un antagonista dell’Occidente. A questo punto il gruppo dirigente di Tbilisi sarebbe entrato nel perverso vortice degli eventi, venendo fortemente condizionato in primo luogo dal timing dell’intera operazione. È osservando attentamente i tempi e le dinamiche dell’attacco che si rinviene una delle ragioni principali dell’azzardo militare di Saakashvili in Ossezia del Sud, dato che fu proprio il fattore tempo ad apparire come decisivo ai fini di tentare di tradurre una temporanea superiorità tattica conquistata sul campo in una situazione di fatto compiuta e difficilmente reversibile. Occupare militarmente porzioni di terreno per poi negoziare con Mosca da posizioni di forza, un azzardo che imponeva dei tempi stretti, dato che Saakashvili e i suoi avrebbero necessariamente agire entro e non oltre i termini definiti dalla scadenza del mandato dell’amministrazione Bush. In seguito è stato anche affermato che le forze armate georgiane avrebbero potuto conseguire un successo qualora l’operazione di attacco da loro pianificata si fosse conclusa in tempi più brevi. In effetti, al giorno 6 agosto 2008, data di inizio dell’offensiva di Tbilisi, il bilancio delle forze combattenti nel ridotto teatro sud-ossetino si presentava in netto favore di Tbilisi. I georgiani ritenevano di poter occupare in poche ore l’intera regione, fatto che li avrebbe posti nelle condizioni di bloccare il tunnel di Roki, unica via di rapido collegamento esistente tra il territorio georgiano e quello russo, che se preclusa ai reparti di terra dell’Armata rossa avrebbe costretto Mosca a effettuare una reazione servendosi esclusivamente delle sue forze aeree, non potendo altrimenti colpire gli obiettivi posti in territorio georgiano. Per i russi sarebbe stata una condizione non certo ottimale, e non soltanto dal punto di vista tattico, dato che i bombardamenti a tappeto avrebbero sicuramente cagionato vittime tra la popolazione civile e danni incalcolabili, pregiudicando così definitivamente ogni possibilità di giustificare il proprio intervento militare nel paese confinante con delle ragioni umanitarie. Saakashvili attivò il suo strumento militare sfruttando appieno il propizio momento dell’assenza da Mosca dei massimi vertici della Federazione russa, dato che quel giorno sia il presidente Medvedev che il premier Putin non si trovavano nella capitale, Putin era addirittura a Pechino per la cerimonia di apertura dei giochi olimpici. Anche in questo caso tutto si giocò sul tempo, in quanto a Tbilisi si pensò di ricavare importanti vantaggi nell’immediato da una presunta lentezza della risposta dell’apparto politico e militare del nemico. Un’aspettativa rivelatasi nei fatti del tutto infondata, dato che Mosca sarebbe egualmente riuscita ad arginare l’offensiva facendo ricorso alle scarse forze di cui in quel momento disponeva nell’area del Caucaso e alla sua schiacciante superiorità aerea, mantenendo il controllo sul tunnel di Roki e sul capoluogo ossetino di Tskhinvali in attesa dell’afflusso dei rinforzi. Nei primi due giorni di guerra il confronto sul campo tra i belligeranti è stato quasi alla pari, però, una volta fallito il colpo di mano per Tbilisi non ci sono state più speranze e, a quel punto, vane si sono dimostrate le recondite aspettative di un sostegno americano fino a quel momento nutrite da Saakashvili. Washington non gli fornì neppure una copertura aerea passiva, evitando di far volare nello spazio aereo georgiano i propri velivoli. La conseguenza fu che, nell’arco di alcune ore, lo strumento militare di Tbilisi si liquefece. In un primo tempo i georgiani furono costretti al ripiegamento dall’incalzare dell’Armata rossa, un ripiegamento trasformatosi poi in vera e propria rotta con l’abbandono delle posizioni tenute sui fronti di Senaki e di Gori. Ma, allora come andrebbe interpretato il comportamento suicida dei vertici dello stato georgiano dell’estate 2008? L’azzardo militare di Mikhail Saakashvili in Ossezia del Sud sarebbe stato davvero possibile senza una qualche forma di avallo da parte degli Usa? Le forze armate di Tbilisi avrebbero potuto prescindere dall’indispensabile consulenza dei consiglieri precedentemente inviati dall’amministrazione Bush nel piccolo paese caucasico? Con ogni probabilità la risposta a questi due ultimi interrogativi e la medesima: no. Infatti sarebbe stato impensabile che a Washington (ma anche a Tbilisi ovviamente) si fossero dimostrati talmente sprovveduti da non essere al corrente della sproporzione delle forze schierate dai potenziali belligeranti su quello specifico scacchiere, dunque va sicuramente esclusa la sorpresa riguardo all’intensità della risposta militare russa, che tutti si aspettavano “tombale”. Considerazioni che acquisiscono ancor più coerenza e fondatezza alla luce della strategia regionale concordata nel corso dell’ultima missione diplomatica ufficiale prima della guerra effettuata a Tbilisi dal segretario di stato Usa Condoleezza Rice. È in questo delicato passaggio dunque che si collocherebbero le intrinseche ragioni alla base dell’azzardo di Saakashvili, dato che in realtà né gli Usa né la Georgia sarebbero stati colti di sorpresa dalla risposta militare russa, in quanto sia a Washington che a Tbilisi erano perfettamente consapevoli dei rapporti di forza in atto in quel momento sul campo. Al contrario, una delle ipotesi ricondurrebbe la strategia aggressiva georgiana alla volontà di scatenare una risposta “muscolare” di Mosca per poi sfruttarla a livello internazionale sul piano mediatico attraverso la mobilitazione delle opinioni pubbliche mondiali. In tal senso acquisterebbero un senso ulteriore (quindi non sarebbero da considerarsi casuali) sia l’immediato sostegno fornito a Tbilisi dai governi russofobi di Kiev e Varsavia, fatto pervenire il giorno 12 di giugno, che la pronta accettazione della realizzazione in Europa del programma americano relativo allo “scudo ABM” (Anti Ballistic Missile). Se questo corrispose alla realtà allora si trattò di un vero a proprio azzardo, una mossa dai contorni estremamente pericolosi tesa allo sfruttamento artificioso di un potenziale (come si è visto in seguito attualizzato) esercizio della forza economica e militare di Mosca a danno dei suoi vicini ex satelliti finalizzato a una successiva conseguente giustificazione a posteriori dell’espansione di Washington nella regione, il tutto, ovviamente, a scapito della solidarietà e dell’integrità europea. Ma a questo punto tornerebbero anche altri conti. Infatti, seguendo la traccia di quest’ultima analisi si giungerebbe alla conclusione che i destini delle due regioni indipendentiste georgiane di Abkhazia e Ossezia del Sud sarebbe stato scritto nel preciso istante nel quale l’amministrazione Bush, sostenuta in questo da alcuni paesi suoi alleati del Vecchio continente, in violazione del principio di integrità territoriale degli stati sovrani sancito dall’ONU, forzarono la mano nell’ambito del processo di riconoscimento dell’indipendenza dell’ex provincia autonoma serba del Kosovo. Dal canto suo, Saakashvili avrebbe poi cercato di dirigere gli effetti dell’operazione militare in Ossezia del Sud sul piano interno georgiano, dove l’opinione pubblica viveva uno stato di frustrazione a causa del rinvio dell’amissione del paese alla NATO, un’adesione sistematicamente promessa dalla martellante propaganda ma sempre rinviata (l’ultima delusione era giunta dal recente vertice alleato di Bucarest). I vertici politici di Tbilisi avrebbero ritenuto quindi opportuno forzare i tempi sfruttando il periodo che ancora residuava prima della fine del mandato del presidente neocon e interventista George Walker Bush. Cementare il consenso interno, alla leadership di Tbilisi l’occupazione dell’Ossezia del Sud e l’eliminazione della guerriglia separatista sarebbe tornata utile sul piano politico: dopo i disastri di Shevardnadze sarebbe stato possibile fare leva sulla retorica del sentimento popolare antirusso dei georgiani per alimentarla e cavalcarla in un conflitto. Saakashvili, però, giocò male le sue carte: seppure godesse di notevole popolarità, egli non calcolò ponderatamente – oppure, come affermato in precedenza, si produsse in un azzardo temerario – lo scarso livello di coesione politica all’interno del suo paese, ritenendo in ogni caso di poter ricavare una situazione di coesione nazionale, ancorché temporanea, da una crisi internazionale sfociata in guerra aperta. Ma come si è visto, l’escalation “controllata” scaturita dall’azzardo militare sfuggì di mano al giovane presidente georgiano e al gruppo di potere che lo sosteneva, fornendo al Cremlino l’opportunità di una dura contromossa, un’evenienza quest’ultima niente affatto sgradita ad alcune agenzie statunitensi. Infatti, nel complicato gioco di interessi che ruotò attorno alla guerra combattuta nell’agosto del 2008 l’amministrazione Bush (o almeno alcuni suoi settori) potrebbero aver nutrito interesse al coinvolgimento di Mosca nel conflitto allo scopo di alimentare ulteriormente la tensione internazionale. Il calcolo era sottile: considerate le condizioni economiche russe e le sue prospettive nel breve-medio termine, il coinvolgimento di Mosca in una situazioni di stato di guerra avrebbe trascinato il Cremlino in un rischioso processo di militarizzazione delle proprie relazioni internazionali che avrebbe comportato l’adozione di moduli conflittuali di contrasto dell’Occidente, con un conseguente impegno a fini militari di risorse altrimenti destinate alla modernizzazione e allo sviluppo del paese. In questo senso, è possibile che Washington abbia tentato di sfruttare le lacune evidenziate dallo strumento militare di Mosca, un carenza che sarebbe stata prevista dagli analisti statunitensi in concomitanza con la fase di disorganizzazione amministrativa e operativa dell’Armata russa stabilita per il periodo 2008-2010, quando, nel quadro di un profondo processo di riorganizzazione e ammodernamento della difesa, in Russia si registrò un graduale deterioramento delle capacità operative delle forze armate. (Allo specifico riguardo si veda anche il successivo paragrafo Il dispositivo militare russo nel dopo-Urss: come Mosca è arrivata al conflitto dell’estate 2008). In ogni caso la risposta americana è stata limitata all’invio di aiuti militari alla Georgia e allo spostamento di velivoli dell’USAF e unità della US Navy, mentre sul piano politico e diplomatico Washington non si è spinta oltre il supporto incondizionato a Tbilisi, richiamando Putin a un formale rispetto del governo di Tbilisi, a un reale cessate il fuoco e al ritiro dei reparti dell’Armata russa dai territori che questa aveva occupato, guardandosi bene, però, dal minacciare misure di ritorsione o pressione che fossero immediatamente applicabili nei confronti di Mosca. (⁹) Un altro possibile strumento di disturbo delle posizioni di Mosca nella regione venne inoltre rinvenuto nelle diffuse attività dei movimenti jihadisti presenti nelle aree settentrionali della Caucaso russo, primi tra tutti quelli ceceni. Il territorio della Cecenia è raggiungibile dalla Georgia tramite la Valle di Pankisi, un corridoio perfettamente praticabile dai guerriglieri wahhabiti che, con il sostegno e il placet degli americani, si pensò potesse essere utilizzato da Tbilisi per alimentare la guerriglia e il terrorismo islamista contro l’Armata russa e i locali alleati di Mosca nei territori dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia. (¹⁰) Il dopoguerra. In seguito al disastroso conflitto combattuto contro la Russia in Georgia non tardò l’inevitabile resa dei conti. La situazione politica interna venne interessata dai primi effetti della débâcle già alla metà del mese di agosto, quando Nino Burianadze (personaggio molto popolare nel paese che in passato era stato portavoce del parlamento di Tbilisi e stretto alleato di Saakashvili) attaccò il presidente chiedendogli di rendere conto dei suoi azzardi bellici nei confronti della Russia e delle che da essi erano derivate alla Georgia. Molti in quella difficile fase misero le mani avanti criticando l’operato del presidente, tra questi David Gamkredlidze, leader del partito di opposizione di centrodestra Nuovi Diritti, opposizione che il 26 agosto giunse a dichiarare ufficialmente la fine dell’appoggio di guerra al governo in carica, accompagnando il ritiro del sostegno con la richiesta della formazione di un nuovo esecutivo. Gli eventi bellici dell’estate 2008 e la concomitante crisi politica alla coalizione filo-occidentale al potere in Ucraina ebbero inoltre l’effetto di ridurre la funzionalità di Tbilisi ai fini della realizzazione dei disegni americani, di risulta l’amministrazione Bush si vide costretta a ricercare nuove modalità per isolare la Russia. I neocon al potere a Washington avrebbero però dovuto trovare una soluzione in tempi relativamente brevi, in quanto due incognite incombevano ora sul loro progetto: l’avvento di un democratico alla presidenza della repubblica degli Stati Uniti e la possibile frattura in seno alla NATO sulla posizione da tenere nei riguardi della Russia, cioè se inasprire ulteriormente la già di per sé pericolosa situazione di confronto con Mosca oppure praticare la strada della distensione. Infatti, Francia, Germania, Italia e Spagna si dissero contrarie a un’inclusione della Georgia nella NATO, perlomeno non nei tempi rapidi voluti dagli americani. In quell’occasione, questi paesi riuscirono ad avere buon gioco anche grazie allo stesso statuto dell’Alleanza atlantica, che prevede l’impedimento all’adesione per i paesi interessati da conflitti etnici. In ogni caso gli americani si attivarono immediatamente per ricostituire nel minor tempo possibile il potenziale militare georgiano che era stato duramente provato dal breve ma intenso conflitto con la Russia. Ben presto emissari di Washington si recarono in visita al ministero della difesa di Tbilisi, dapprima fu la volta del generale Bantz J. Craddock, capo del comando europeo delle forze statunitensi, in seguito quella di Robert Simmons, rappresentante speciale per il Caucaso e l’Asia centrale del segretario generale della NATO. Per quanto concernette l’Europa dal vertice dei capi di stato e di governo dei ventisette paesi dell’Unione che ebbe luogo a Bruxelles il primo settembre emerse la volontà di non scontentare nessuno, quindi come risposta alla crisi si optò per il congelamento dei colloqui con Mosca intavolati per giungere a un nuovo accordo di partnership strategica, una sospensione che sarebbe durata fino al momento del ritiro dell’Armata russa dai territori occupati in Georgia, come per altro previsto dal piano di pace in sei punti che era stato approvato il 13 agosto precedente. L’Unione europea condannò la decisione del Cremlino di riconoscere l’indipendenza dichiarata da Tbilisi dalle due regioni secessioniste (autoproclamatesi repubbliche), un annuncio di presa delle distanze che però assumeva dei toni tutt’altro che punitivi nei confronti di Mosca. Infatti, nel documento di condanna non venne fatto alcun riferimento all’applicazione di sanzioni, ma tuttalpiù alla possibilità di un’eventuale differenziazione delle fonti di approvvigionamento energetico da parte dei paesi dell’Unione europea clienti dei russi. A Bruxelles si ebbe piena consapevolezza del fatto che anche Mosca fosse in possesso di strumenti ritortivi utilizzabili nei confronti dell’Occidente qualora la situazione sul piano internazionale avesse conosciuto una fase di ulteriore degenerazione. Gli ambiti potenziali all’interno dei quali i russi avrebbero potuto agire per disturbare gli occidentali erano quelli afghano, mediorientale ed energetico. Il primo contesto (Afghanistan) si prestava perfettamente al peggioramento delle condizioni operative per le forze NATO impegnate nelle missioni contro i taliban e i gruppi jihadisti, nel secondo (Medio Oriente) si sarebbero potute accentuare le dinamiche di mutamento dei preesistenti equilibri militari regionali, mentre nel terzo (materie prime energetiche) i russi avrebbero potuto agire sulla leva delle forniture riducendo o addirittura interrompendo i flussi di gas diretti ai paesi dell’Europa centrale e occidentale. In tal senso le avvisaglie della determinazione di Mosca erano pervenute già il 21 agosto, quando il governo russo comunicò ai paesi membri della NATO la sua decisione di sospendere tutti gli eventi previsti nell’ambito dei programmi di cooperazione reciproca, comprendendo eventualmente anche i permessi di transito concessi ai vettori recanti materiali “non letali” destinati al teatro operativo afghano. Al riguardo si pensi all’utilizzo americano della base aerea kirghiza di Manas, ottenuta grazie al placet del Cremlino, un’infrastruttura di importanza fondamentale ai fini del mantenimento della catena logistica della missione ISAF in Afghanistan, disponibilità che i russi avrebbero potuto negare mediante la sospensione del permesso di attraversamento del loro spazio aereo concessa ai velivoli della NATO. Contestualmente, la visita ufficiale a Mosca del presidente siriano Bashar al-Assad sembrò essere il preludio della stipulazione del definitivo accordo per la fornitura a Damasco di nuovi sistemi missilistici antiaerei ritenuti in grado di mettere in difficoltà l’aviazione israeliana (IASF, Israel Air and Space Force). In questo confronto – definito laterale in quanto il coinvolgimento della NATO non era diretto – il raffreddamento delle relazioni con la Russia avrebbe comunque potuto comportare notevoli complicazioni per l’alleato strategico degli Usa nella regione mediorientale, cioè lo Stato ebraico. (¹¹) Per gli occidentali la collaborazione russa se non indispensabile risultava, però, quanto meno estremamente importante anche negli ambiti della War on Terrorism, del pattugliamento navale nel Mediterraneo e nel contrasto del traffico di sostanze stupefacenti. Il Cremlino si trovava dunque nelle condizioni di scaricare su di essi buona parte del prezzo del deterioramento delle relazioni internazionali. Mosca giunse così al riconoscimento delle due repubbliche secessioniste del Caucaso, la mattina del 26 agosto i due rami del parlamento russo (Duma e Consiglio della Federazione), decisero all’unanimità di sostenere la dichiarazione di indipendenza dichiarata nei giorni precedenti dalle regioni secessioniste georgiane dell’Abkhazia e dell’Ossezia meridionale. Un voto che non vincolò la successiva definitiva decisione nel merito, spettante secondo il dettato costituzionale russo al presidente della Federazione, che, comunque, venne avallata il giorno seguente dal presidente Medvedev, che attraverso un proprio atto ufficiale riconobbe l’indipendenza di Sukhumi e Tskhinvali. La puntuale firma del decreto presidenziale smentiva le previsioni e le aspettative degli occidentali, che invece speravano in un periodo di attese e negoziati in parte condotti segretamente. La Russia stabilì così con Abkhazia e Ossezia del Sud formali rapporti diplomatici, impegnandosi inoltre a tutelarne la sicurezza e l’integrità territoriale. Il riconoscimento sanciva la sostanziale presa d’atto dell’impossibilità di una soluzione alternativa della crisi sul piano politico-negoziale, almeno in tempi realisticamente prevedibili. I leader delle due regioni georgiane secedute. Edvard Kokoity, divenuto capo del neonato stato indipendente dell’Ossezia del Sud, vide i propri natali nel 1964. In gioventù fu un campione di lotta libera e, sempre ai tempi dell’Unione sovietica, compì i primi passi della sua carriera politica divenendo segretario del Komsomol di Tskhinvali. Nel 1991, a seguito del collasso dell’Urss, si mise in affari e si trasferì a Mosca, dove strinse amicizia con un altro lottatore sud-osseto, Jambulat Tedeyev, il cui clan di appartenenza era uno dei più potenti della regione di origine. Nel 2001 fece ritorno Tskhinvali e, grazie al sostegno dei Tedeyev, venne eletto presidente dell’Ossezia del Sud con il 46% delle preferenze, carica alla quale sarebbe poi stato riconfermato nel 2006 con il 98% dei voti. Giunto al potere assegnò a un membro del clan Tedeyev la direzione del servizio doganale, incarico che garantiva il controllo dell’unica fonte di reddito della regione, derivante dal transito delle merci attraverso la direttrice di collegamento tra la Russia e la Georgia. Le lotte intestine esplose a Tskhinvali nel 2005, culminate in una serie di scontri armati, portarono poi all’esclusione dei membri del clan Tedeyev dai centri decisionali locali e alla successiva concentrazione di tutto il potere nelle mani di Kokoity e dei suoi sodali. Il leader abkhazo Sergei Bagapsh nacque a Sukhumi nel 1949. In Abkhazia trascorse quasi tutta la sua esistenza, dove ebbe luogo anche la sua carriera politica, iniziata alla segreteria locale del Pcus. In seguito alla guerra e, di fatto, all’indipendenza della Georgia, divenne rappresentante del governo abkhazo a Mosca, quindi, dal 1997 al 2004, premier del medesimo esecutivo. Nel 1998, dopo che Tbilisi ebbe tentato di riconquistare parte del territorio della regione seceduto, Bagapsh guidò il suo paese in una breve e vittoriosa guerra combattuta contro la Georgia. Nel 2004 si candidò alle elezioni presidenziali, consultazioni in seguito finite nel caos tra conteggi dei voti e proclamazioni di vittoria contrapposte. Nel 2005, all’atto della ripetizione della consultazione elettorale, Bagapsh si impose senza difficoltà, presentandosi in lista insieme al suo numero due, che in passato era stato il suo principale oppositore. Conseguenze del conflitto sul piano energetico. Tra le conseguenze del conflitto russo-georgiano dell’estate 2008 ci fu il congelamento della guerra per le condotte energetiche, evento del tutto favorevole a Mosca. Infatti, la grave crisi che interessò la regione del Caucaso produsse anche l’effetto di sconvolgere gli assetti dei corridoi strategici occidentali concepiti per aggirare il territorio russo attraverso un reticolo di gasdotti e oleodotti impiantato dagli americani. A seguito della controffensiva del Cremlino in Georgia, però, la prospettiva di una riduzione della dipendenza europea dalle forniture di materie prime energetiche russe risultarono gravemente compromesse. Allo stesso tempo le velleità di Tbilisi di porsi quale referente privilegiato dei Paesi baltici e dell’Ucraina nel quadro di un partenariato energetico esclusivo che ponesse in collegamento le regioni del Caucaso e del Baltico attraverso il Mar Nero. Mosca poté consolidare le proprie relazioni con i produttori turchi e dell’area del Caspio, consolidando l’importanza delle sue condotte dirette in Europa e imponendosi inoltre sul mercato del gas. Da anni la Russia era impegnata in un’azione di contrasto dei tentativi americani volti a sottrargli progressivamente gli sbocchi al mercato europeo per le materie prime energetiche provenienti dal suo territorio. Washington agì attraverso lo sviluppo di progetti che prevedevano approvvigionamenti diretti da Azerbaigian, Kazakistan e Turkmenistan sfruttando il ruolo di collettore principale dei flussi svolto dalla Turchia. Con l’allargamento della NATO a Oriente gli sforzi americani poterono ricevere un supporto dalla Polonia e dai Paesi baltici, mentre, contestualmente, Washington poté contare anche su stati non membri ma desiderosi di entrare nell’Alleanza, quali l’Ucraina e la stessa Georgia. Nel 2006 trovò realizzazione il progetto di maggiore importanza ai fini del perseguimento degli interessi americani nel Caucaso e in Asia centrale, l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (BTC), condotta parte di un più ampio corridoio energetico strategico che avrebbe convogliato il greggio estratto in Azerbaigian dalla regione caspica al Mediterraneo attraverso il Caucaso. Un progetto parallelo prevedeva l’affiancamento a questa condotta di un gasdotto, il Baku-Tbilisi-Erzurum (BTE), che avrebbe dovuto far giungere il gas in Europa attraverso la Georgia e la Turchia. Il problema che si pose fu però quello dell’insufficienza di materia prima pompata al suo interno. Conseguentemente, con la perdita di importanza del BTE divenne meno concreta anche l’economicità di un altro progetto direttamente correlato al precedente, il Nabucco, che agganciandosi al terminale gasifero di Erzurum per poi, bypassando i fornitori russi, avrebbe raggiunto Vienna. (¹²) Alcuni analisti giunsero persino a ipotizzare l’elaborazione da parte della leadership di Tbilisi di una strategia di partenariato energetico esclusivo che prevedeva la centralità della posizione georgiana. Un’alternativa all’attraversamento del territorio turco che avrebbe utilizzato gli approdi del piccolo paese caucasico sul Mar Nero. Emarginato dai progetti prefiguranti l’approvvigionamento di MPE dell’Europa centrale occidentale attraverso la Turchia e la Romania, il gruppo dirigente che attorniava il presidente Saakashvili, in parte influenzato dai suoi referenti a Kiev e Varsavia, ritenne possibile la realizzazione di un progetto mirante al potenziamento della preesistente condotta Baku-Supsa e dei porti di Poti e Batumi. Le difficoltà emersero però ben presto e con evidenza e furono di ostacolo ai grandi progetti di investimento stranieri pregiudicandoli: l’occupazione militare russa conseguita al breve conflitto dell’estate 2006 aveva ulteriormente frazionato il territorio, fattore impeditivo che si andava ad aggiungere a quello costituito dai limiti intrinseci dell’estensione costiera georgiana sul Mar Nero. (¹) Soltanto il 10 di agosto 2008, quindi dopo una giornata di aspri combattimenti, il ministro degli esteri israeliano raccomandò un congelamento delle cessioni di materiali d’armamento alla Georgia di Saakashvili nel timore di una dura ritorsione russa. Gerusalemme voleva evitare d’innescare una reazione a catena che avrebbe posto Mosca nelle condizioni di fornire moderni sistemi antiaerei alla Siria e all’Iran. (²) Nel settembre 2008 Tbilisi ammise ufficialmente di aver impiegato cluster bombs nel corso del conflitto combattuto contro la Russia nell’Ossezia del Sud, ordigni tipo M85 di produzione israeliana lanciati dai georgiani nell’area del tunnel di Roki. (³) In fin dei conti gli americani il concetto dell’esistenza di interessi “collettivi” al di fuori del territorio tradizionale dell’Alleanza atlantica lo avevano formulato già in precedenza. A esplicitarlo con chiarezza dalle colonne del quotidiano New York Times era stato il 21 gennaio del 1997 il segretario alla difesa statunitense Cristopher W. Perry, che aveva parlato della Extraordinary Power Projection e della «…insensatezza della NATO quale alleanza difensiva» che avrebbe invece dovuto concentrarsi su “nuovi interessi comuni” da individuare nell’impedimento dell’interruzione dei flussi petroliferi, della violenza genocida e nelle guerre di aggressione nelle altre regioni. (⁴) Almeno uno di questi UAV (Unmanned Air Vehicle) è stato abbattuto dai russi su Tshkinvali. (⁵) Un’unità lanciamissili della marina di Tbilisi venne affondata l’11 agosto da un missile antinave russo lanciato da un’unità appartenente alla Flotta del Mar Nero partecipante al blocco delle coste georgiane. (⁶) Il General Dynamics BGM-109 Tomahawk è un missile di crociera a lunga gittata costruito dall’impresa statunitense General Dynamics. Sviluppato per soddisfare le esigenze della marina militare di Washington, il Tomahawk può essere lanciato dall’aria o dal mare. In questo secondo caso, secondo la nomenclatura ufficiale americana si tratta di un SLCM (Sea Launched Cruise Missile), cioè di un’arma impiegabile sia da bordo di unità di superficie che da sottomarini in immersione. I sottomarini lanciano il missile servendosi dei loro tubi lancia-siluri, mentre le navi impiegano specifici lanciatori corazzati installati in coperta o, in alternativa, sistemi di lancio verticali. Il SLCM Tomahawk può essere impiegato in azioni antinave o per attacchi al suolo, caricato con testate di esplosivo convenzionale oppure nucleare, applicando a seconda della particolare missione diversi tipi di sistemi di guida; il sistema di guida base impiega il TERCOM (Terrain Contour Matching), adottato anche nella versione distribuita all’USAF (United States Air Force). Già a partire dalle versioni prodotte nei primi anni Novanta il missile poteva venire lanciato nella direzione generica del bersaglio, verso la quale esso volava a bassa quota per evitare di essere tracciato dai radar nemici, quindi, a una distanza pre-programmata, il suo radar-altimetro si commutava sulla funzione “scoperta e acquisizione” dell’obiettivo. Il TERCOM utilizzato nella versione da attacco terrestre per guidare il missile sull’obiettivo impiega un sistema di navigazione inerziale che fa riferimento alle posizioni note della piattaforma di lancio e del bersaglio, coordinate geografiche conosciute dal sistema in quanto impostate immediatamente prima del lancio. A questo punto la rotta di volo pre-programmata viene seguita fino al bersaglio; lo speciale radar altimetro del TERCOM controlla le caratteristiche del profilo del terreno sorvolato dal Tomahawk durante la sua intera rotta e le trasmette automaticamente al sistema, che è successivamente in grado di confrontarle con i dati del terreno della rotta stabilita che sono immagazzinati nel suo data base, il medesimo computer provvede poi a fornire un consenso qualora la rotta venga seguita correttamente, altrimenti fornisce gli elementi necessari alla tempestiva correzione della stessa. Al momento in cui il Tomahawk giunge in prossimità del bersaglio si attiva una telecamera digitale che confronta ciò che viene “visto” dal cono anteriore del missile con la library contenente le immagini del bersaglio in precedenza ottenute dai satelliti da ricognizione e, se il sistema rileva anche dei minimi scostamenti dalla traiettoria sul bersaglio, apporta in tempo reale le appropriate correzioni. (⁷) Sulla base di un accordo bilaterale stipulato da Mosca e Kiev dopo la dissoluzione dell’Urss e l’indipendenza dello Stato ucraino, accordo che avrebbe dovuto avere una validità fino al 2017, la Flotta russa del Mar Nero ha mantenuto gli approdi e le sue strutture terrestri di supporto in Crimea. (⁸) Il missile balistico a corto raggio SS-21 Točka (denominazione in codice attribuita dalla NATO: “Scarab”), concepito a suo tempo per sostituire il razzo pesante non guidato FROG-7 (“Luna”), entrò in servizio nel 1976. Nella versione iniziale (Scarab A) il missile monostadio a propellenti solidi era lungo 6,4 metri, aveva un diametro di 65 centimetri, un peso di 2.000 chilogrammi e una gittata massima di 70 chilometri. Il CEP (errore circolare probabile) previsto era inferiore ai 30 metri quando veniva usata la testata ad alto esplosivo a guida terminale, mentre questo sistema di guida non era previsto per le testate a dispersione e per quelle nucleari tattiche. Alcune fonti ipotizzarono che del missile ne fosse stata approntata anche una versione antiradar dotata di una testata a guida passiva; furono inoltre realizzate testate chimiche, anti-pista e anticarro a submunizionamento. La successiva versione, denominata “Sarab B” e immessa in linea nel 1986, di dimensioni e pesi equivalenti alla prima vide l’apporto di una serie di migliorie quali l’incremento della gittata incrementata a 120 chilometri e la manovrabilità della testata allo scopo di eludere le difese antimissile del nemico. Essa venne poi seguita da un’ulteriore versione migliorata nella gittata, che vene incrementata a 185-200 metri. Gli spostamenti sul terreno del sistema missilistico SS-21 veniva assicurata dai veicoli ruotati ad alta mobilità TEL sui quali trovava installazione. Nell’ambito dell’Armata rossa (e poi in quella “russa”) venne assegnato a unità di livello brigata dotate di 18 lanciatori ciascuna e almeno 72 missili. Questo tipo di arma dopo il lancio sviluppava una traiettoria relativamente piatta dopo una fase di accelerazione ridotta, di conseguenza nei suoi confronti risultavano scarsamente efficaci sistemi di ingaggio come i missili ABM. Per contrastare questo tipo di minaccia in Occidente ci si orientò verso sistemi di autodifesa idonei non soltanto nei confronti dei missili tattici, ma anche dei razzi di artiglieria, come ad esempio le armi a energia diretta quali i laser. (⁹) Se si escludono la cancellazione di una prevista esercitazione militare congiunta tra Usa e Russia e il rifiuto della convocazione di Mosca al vertice NATO che era stata richiesta da Putin, per quanto riguardò le ritorsioni a Washington rimasero nel campo delle pure ipotesi. Vennero esplorate le possibilità di colpire la Russia sul piano economico mediante l’apposizione di un veto al suo ingresso nel WTO (World Trade Organization), l’espulsione dal G8, il sequestro dei beni finanziari russi negli Usa e dell’esercizio di pressioni sul Comitato olimpico al fine di ottenere la cancellazione dei giochi invernali assegnati per il 2014 alla città russa di Sochi. La conseguenza del rinvio dell’ammissione al WTO minacciato dai paesi occidentali fu la sospensione da parte di Mosca degli accordi preliminari che essa aveva stipulato in vista di una sua piena adesione. Si trattava, comunque, di accordi tutto sommato onerosi per la Russia, in base ai quali il sempre più ricco mercato interno era stato aperto senza protezioni doganali ai manufatti e ai prodotti agricoli esteri. Altri accordi prevedevano poi l’acquisizione di particolari produzioni russe a prezzi favorevoli per le imprese occidentali; un esempio era quello relativo al legname che fino a quel momento era stato esportato in notevoli quantità nei paesi scandinavi per essere lavorato dalle cartiere e dai mobilifici di Finlandia e Svezia. (¹⁰) Nella seconda metà dell’agosto 2008 Putin chiuse le frontiere meridionali della Russia. Questa decisione venne motivata dai rischi di infiltrazioni terroristiche, in particolare di organizzazioni armate islamiste. Di conseguenza il transito attraverso la Georgia e l’Azerbaigian venne precluso a tutti i cittadini stranieri a eccezione di quelli dei paesi aderenti alla CSI (Comunità degli Stati Indipendenti), consesso dal quale la Georgia era da poco uscita. In quella fase le relazioni tra la Russia e l’Azerbaigian non risultavano particolarmente deteriorate e, fino a quel momento, dalla frontiera comune erano transitate soprattutto persone e merci provenienti dall’Iran. La ragione di un provvedimento drastico come quello andava dunque fatto risalire a cause differenti dal terrorismo jihadista, quali la sotterranea contesa tra Mosca e Baku avente a oggetto il prolungato blocco da parte delle guardie di frontiera azere di un importante carico di materiali russi indispensabili a Teheran per la conduzione del suo programma nucleare. Al riguardo va però anche rilevato che in materia di terrorismo le autorità azere si erano sempre dimostrate inflessibili con gli estremisti islamisti presenti sul proprio territorio, mostrandosi al contrario relativamente tolleranti nei riguardi dei jihadisti diretti all’estero, in particolare con quelli provenienti dalla Turchia, paese allora divenuto crocevia del terrorismo internazionale anche in ragione della sua posizione geografica a ridosso di Europa, Caucaso, Medio Oriente e Asia centrale. (¹¹) Si pensi ad esempio al peso apportato nel confronto militare siro-israeliano dalle forniture russe a damasco dei sistemi missilistici antiaerei Pantsyr-S1 e BUK-M1, armamenti al tempo relativamente avanzati; senza contare poi che, nel caso del Pantsyr-S1, arma di più semplice concezione e impiego, ne avrebbe potuto fare uso anche la milizia libanese di Hizbullah. (¹²) Il gas naturale può essere trasportato dalle zone di estrazione ai mercati di consumo sia attraverso infrastrutture fisse che attraversano spesso i territori di vari paesi, le cosiddette pipeline, oppure, dopo che la materia prima energetica ha subito un processo di liquefazione (gas naturale liquefatto o GNL), mediante navi gasiere attraccate presso specifici terminali portuali. Il gas allo stato liquido offre al compratore il vantaggio di una più ampia diversificazione dei fornitori (creando, teoricamente, anche un favorevole clima di competizione ritenuto salutare per il mercato), anche se i costi del suo trasporto via mare risulta superiore del 30-40% rispetto a quello effettuato mediante gasdotto sottomarino (entro distanze di 1.200 chilometri) e di quello via gasdotto terrestre (entro distanze di 2.500-3.000 chilometri). Riguardo a questi argomenti è possibile consultare anche altri documenti (file di testo e audio) nell’archivio di questo stesso sito: in particolare le interviste con l’Onorevole Gianni De Michelis (già ministro degli Affari Esteri ed europarlamentare socialista) e il generale Fabio Mini (già comandante di NATO KFOR, in seguito divenuto analista e collaboratore della rivista di geopolitica Limes), effettuate nel corso della trasmissione “ORA ZERO” andata in onda sulle frequenze dell’emittente Radio Omega Sound il 2 ottobre 2008; inoltre, Economia e situazione politica e sociale in Russia, intervista con il professor Victor Zaslavskij (docente presso l’Università LUISS Guido Carli), sempre effettuata nel corso della trasmissione “ORA ZERO”, ma nella puntata andata in onda il giorno 22 aprile 2008.

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